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CAPORALATO, MAXI INCHIESTA TRA CALABRIA E BASILICATA

In arresto 15 persone, 16 gli indagati: per 6 aziende a gricole sequestro da 15 milioni di euro


Maxi-operazione dei carabinieri per il contrasto al caporalato in Calabria, tra Cosenza, Catanzaro e Crotone: 9 le persone finite agli arresti domiciliari, tra cui Giovanni Nardiello residente a Policoro, e 6 quelle in carcere ritenuti gravemente inidiziati, a vario titolo, di intermediazione illecita, sfruttamento del lavoro, minaccia e estorsione.

Il blitz si è esteso anche ad alcune zone della Basilicata e a squarciare il velo sulle tristi condizioni di vita di decine di stranieri vittime dei “caporali” e di imprenditori senza scrupoli, la Procura di Castrovillari, diretta da Alessandro D’Alessio. Oltre alle 15 persone arrestate, ce n’è una sedicesima che è solo indagata.

Impegnati i militari del gruppo territoriale di Corigliano Rossano e del Nucleo di tutela del lavoro coordinati dal tenente al colonnello Raffaele Giovinazzo.

L’inchiesta ha permesso di disvelare il fenomeno dell’impiego di lavoratori in condizioni illecite da parte di diverse aziende dislocate tra la Regione Calabria (province di Cosenza e Crotone) e Basilicata (provincia di Matera): sequestrate 6 aziende agricole e mezzi per un valore di 15 milioni di euro.

Nello specifico, i sequestri preventivi hanno riguardato beni e quote aziendali di 10 imprese operanti nel settore agricolo, 4 persone giuridiche e 6 imprese individuali, di cui 4 ubicate in provincia di Cosenza, 5 in provincia di Crotone ed 1 in provincia di Matera nonché il sequestro di 5 veicoli ritenuti in sede di accusa, utilizzati da parte dei caporali per il trasporto dei lavoratori in nero.

La condotta posta in essere dagli indagati comprende un periodo che va dalla seconda metà dell’anno 2018 fino al 2021. Secondo gli inquirenti, raccolti, sul piano probatorio, molti elementi utili, tra questi le denunce dei lavoratori.

L’accusa ritiene di aver riscontrato, nel corso delle indagini, il reiterato ricorso a minacce, anche di morte e ad atti di violenza da parte degli indagati per costringere le vittime identificate ad accettare la corresponsione di retribuzioni difformi alla contrattazione nazionale e territoriale, dai 15 ai 30 euro al giorno a fronte di oltre 12 ore di lavoro nei campi, prospettando loro che in caso diverso sarebbero stati licenziati.

Così come, in rispetto del principio di innocenza fino a sentenza passata in giudicato, alle ripetute violazioni della normativa a tutela dei lavoratori in materia di igiene e sicurezza sui posti di lavoro, in guanto non sono stati mai sottoposti a visita medica neanche in caso di infortunio, orario di lavoro e riposi, che duravano tra i 10 e i 30 minuti. Addirittura, in un caso un è stata negata assistenza ad un lavoratore che si era stirato una gamba dopo aver caricato oltre 630 cassette di pomodoro.

Per gli inquirenti le indagini hanno, inoltre, hanno consentito di documentare come i caporali esigevano la restituzione di parte dello stipendio dai lavoratori e soprattutto come istruivano gli stessi lavoratori nel caso di un eventuale controllo di polizia.

Nel corso delle investigazioni «si è toccata dal vivo la drammaticità della piaga dell’intermediazione nel lavoro, al fine di sfruttare la manodopera di lavoratori di varie nazionalità, gambiana, nigeriana, rumena, costretti, per necessità e per bisogno, a subire condizioni di lavoro estenuanti, retribuito con paghe assai misere, sulle quali si approfittavano i “caporali”».


 

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