CHE COSA CI DICE OGGI L’ESPERIENZA DI PIETRO E PAOLO?
La Chiesa accolga tutti andando “ai crocicchi delle strade”
PAPA FRANCESCO
Francesco: impariamo da Pietro e Paolo ad avere fede anche nelle difficoltà
Nella solennità dei santi patroni di Roma, martiri, secondo la tradizione, nello stesso giorno, il Papa si sofferma all’Angelus sulla loro graduale maturazione come cristiani, sulle contraddizioni di Pietro e i dubbi di Paolo. Anche noi davanti alle prove vacilliamo, e invece dobbiamo farne occasione per accrescere la nostra fiducia in Dio
Tiziana Campisi – Città del Vaticano
Come gli apostoli Pietro e Paolo, anche noi ci troviamo ad affrontare un percorso di maturazione nell’essere cristiani. Lo sottolinea Francesco, all’Angelus della solennità dei due santi patroni di Roma. Il Papa lo chiama “‘apprendistato’ della fede”: “crediamo che Gesù è il Messia, il Figlio del Dio vivente”, ma ci “occorrono tempo, pazienza e tanta umiltà perché il nostro modo di pensare e di agire aderisca pienamente al Vangelo”.
Pietro e le sue ribellioni al progetto di Dio
Pietro, ad esempio, riconosce in Gesù “il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, ma questa professione di fede non è frutto “della sua comprensione umana”, spiega Francesco, è Dio che “gliel’ha ispirata”. E dovrà passare molto tempo prima che la portata di tali parole coinvolga totalmente la sua vita. Tant’è vero che, quando poco dopo Gesù “annuncia che dovrà soffrire ed essere condannato a morte”, Pietro “rifiuta questa prospettiva” e lo dice apertamente al Maestro, che invece “lo apostrofa: ‘Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!’”. Il Papa fa notare che è quanto succede anche a noi: “ripetiamo il Credo, lo diciamo con fede; ma davanti alle prove dure della vita sembra che tutto vacilli”. E protestiamo contro Dio, “dicendogli che non è giusto, che ci devono essere altre vie, più diritte, meno faticose”
Il Papa: è il tempo dell’accoglienza, nella Chiesa c’è posto per tutti
Adriana Masotti – Città del Vaticano
Settemila i fedeli in San Pietro, quarantaquattro gli arcivescovi metropoliti nominati nel corso dell’anno di cui molti sono presenti oggi in basilica. Il rosso porpora delle loro vesti colora i primi due settori davanti all’Altare della Cattedra. All’inizio della celebrazione eucaristica, presieduta da Papa Francesco, il cardinale James Michael Harvey li presenta al Papa che, dopo la formula di giuramento recitata da ciascun metropolita, benedice i Palli. Sono un paramento liturgico costituito da una striscia di stoffa di lana bianca con delle croci nere. Rappresentano la pecora che il pastore porta sulle sue spalle come Cristo e sono simbolo del compito pastorale affidato agli arcivescovi metropoliti. Inizia quindi la Liturgia della Parola. Nelle prime due letture rivive la testimonianza degli apostoli Pietro e Paolo. Quella tratta dagli Atti degli Apostoli racconta dell’apostolo Pietro gettato in carcere da re Erode e della sua liberazione per opera di un angelo che svegliandolo lo esorta “Alzati in fretta”. Nell’altra, è l’apostolo Paolo a parlare della sua esperienza: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede”.
Che cosa ci dice oggi l’esperienza di Pietro e Paolo?
Il Papa nell’omelia invita a guardare a questi due aspetti – alzarsi in fretta e combattere la buona battaglia – per chiedersi “che cosa hanno da suggerire alla comunità cristiana di oggi, mentre è in corso il processo sinodale”. L’atto di alzarsi in fretta ricorda la mattina di Pasqua, afferma, significa risorgere, “uscire fuori verso la luce” e dice che questa ” è un’immagine significativa per la Chiesa”, perché anche noi dobbiamo alzarci per seguire il Signore dove lui vorrà. E non è sempre facile, le resistenze sono tante:
A volte, come Chiesa, siamo sopraffatti dalla pigrizia e preferiamo restare seduti a contemplare le poche cose sicure che possediamo, invece di alzarci per gettare lo sguardo verso orizzonti nuovi, verso il mare aperto. Siamo spesso incatenati come Pietro nella prigione dell’abitudine, spaventati dai cambiamenti e legati alla catena delle nostre consuetudini. Ma così si scivola nella mediocrità spirituale, si corre il rischio di “tirare a campare” anche nella vita pastorale, si affievolisce l’entusiasmo della missione e, invece di essere segno di vitalità e di creatività, si finisce per dare un’impressione di tiepidezza e di inerzia.
La Chiesa accolga tutti andando “ai crocicchi delle strade”
Papa Francesco cita padre de Lubac che vedeva il pericolo di ridurre “la grande corrente di novità e di vita che è il Vangelo” in una fede che “cade nel formalismo e nell’abitudine”. Il Sinodo, afferma Francesco, ci chiama a diventare invece una Chiesa che si alza in piedi, che non si ripiega su se stessa per andare incontro al mondo.
Una Chiesa senza catene e senza muri, in cui ciascuno possa sentirsi accolto e accompagnato, in cui si coltivino l’arte dell’ascolto, del dialogo, della partecipazione, sotto l’unica autorità dello Spirito Santo. Una Chiesa libera e umile, che “si alza in fretta”, che non temporeggia, non accumula ritardi sulle sfide dell’oggi, non si attarda nei recinti sacri, ma si lascia animare dalla passione per l’annuncio del Vangelo e dal desiderio di raggiungere tutti e accogliere tutti. Non dimentichiamo questa parola: tutti.
Papa Francesco insiste su questa parola “tutti”, la ripete più volte e a braccio aggiunge:
Andate all’incrocio delle strade e portate tutti, ciechi sordi zoppi ammalati giusti peccatori: tutti, tutti! Questa parola del Signore deve risuonare, risuonare nella mente e nel cuore: tutti, nella Chiesa c’è posto per tutti. E tante volte noi diventiamo una Chiesa dalle porte aperte ma per congedare gente, per condannare gente. Ieri uno di voi mi diceva: “Per la Chiesa questo non è il tempo dei congedi, è il tempo dell’accoglienza”. Non sono venuti al banchetto, andate all’incrocio. Tutti, tutti! “Ma sono peccatori…”. Tutti!
Ciascuno di noi deve offrire il suo contributo alla Chiesa
L’apostolo Paolo non si è risparmiato nell’annunciare il Vangelo e ha conosciuto persecuzioni e sofferenze. “Ora, alla fine della vita – afferma il Papa -, vede che nella storia è ancora in corso una grande “battaglia”, perché molti non sono disposti ad accogliere Gesù”. Proseguire la sua opera, il suo “combattimento” tocca ora ai fratelli della comunità. Ciascuno di noi, sottolinea Francesco, è chiamato ad essere missionario e “a offrire il proprio contributo”:
E qui mi vengono in mente due domande. La prima è: cosa posso fare io per la Chiesa? Non lamentarsi della Chiesa, ma impegnarsi per la Chiesa. Partecipare con passione e umiltà: con passione, perché non dobbiamo restare spettatori passivi; con umiltà, perché impegnarsi nella comunità non deve mai significare occupare il centro della scena, sentirsi migliori e impedire ad altri di avvicinarsi. Chiesa sinodale significa: tutti partecipano, nessuno al posto degli altri o al di sopra degli altri. Non ci sono cristiani di prima e di seconda classe, tutti, tutti sono chiamati.
Essere lievito nella pasta del mondo
Papa Francesco osserva che l’annuncio del Vangelo ” non è neutrale, non è acqua distillata”, “non lascia le cose come stanno”, al contrario, “accende il fuoco del Regno di Dio laddove invece regnano i meccanismi umani del potere, del male, della violenza, della corruzione, dell’ingiustizia, dell’emarginazione”. La seconda domanda proposta dal Papa allora è: “cosa possiamo fare insieme, come Chiesa, per rendere il mondo in cui viviamo più umano, più giusto, più solidale, più aperto a Dio e alla fraternità tra gli uomini?”. Dobbiamo essere lievito nella pasta del mondo, è la risposta di Francesco:
Insieme possiamo e dobbiamo porre gesti di cura per la vita umana, per la tutela del creato, per la dignità del lavoro, per i problemi delle famiglie, per la condizione degli anziani e di quanti sono abbandonati, rifiutati e disprezzati. Insomma, essere una Chiesa che promuove la cultura della cura, della carezza, la compassione verso i deboli e la lotta contro ogni forma di degrado, anche quel degrado delle nostre città e dei luoghi che frequentiamo, perché risplenda nella vita di ciascuno la gioia del Vangelo: questa è la nostra “buona battaglia”, questa è la sfida.
Il saluto alla delegazione inviata dal patriarca Bartolomeo
L’omelia si avvia alla conclusione, Francesco ricorda che poco prima ha benedetto, secondo la tradizione, i Palli per gli arcivescovi metropoliti di recente nomina, che dovranno essere “sentinelle vigilanti del gregge” per “combattere la buona battaglia”, insieme però a tutto il popolo di Dio. Poi saluta e ringrazia la delegazione del Patriarcato Ecumenico, inviata insieme ad un messaggio “dal caro fratello Bartolomeo”. “Grazie per camminare insieme – conclude il Papa – perché solo insieme possiamo essere seme di Vangelo e testimoni di fraternità”
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica di San Pietro
Mercoledì, 29 giugno 2022
La testimonianza dei due grandi Apostoli Pietro e Paolo rivive oggi nella Liturgia della Chiesa. Al primo, fatto incarcerare dal re Erode, l’angelo del Signore dice: «Alzati, in fretta» (At12,7); il secondo, riassumendo tutta la sua vita e il suo apostolato dice: «Ho combattuto la buona battaglia» (2 Tm4,7). Guardiamo a questi due aspetti – alzarsi in fretta e combattere la buona battaglia – e chiediamoci che cosa hanno da suggerire alla Comunità cristiana di oggi, mentre è in corso il processo sinodale.
Anzitutto, gli Atti degli Apostoli ci hanno raccontato della notte in cui Pietro viene liberato dalle catene della prigione; un angelo del Signore gli toccò il fianco mentre dormiva, «lo destò e disse: Alzati, in fretta» (12,7). Lo sveglia e gli chiede di alzarsi. Questa scena evoca la Pasqua, perché qui troviamo due verbi usati nei racconti della risurrezione: svegliare e alzarsi. Significa che l’angelo risvegliò Pietro dal sonno della morte e lo spinse ad alzarsi, cioè a risorgere, a uscire fuori verso la luce, a lasciarsi condurre dal Signore per superare la soglia di tutte le porte chiuse (cfr v. 10). È un’immagine significativa per la Chiesa. Anche noi, come discepoli del Signore e come Comunità cristiana siamo chiamati ad alzarci in fretta per entrare nel dinamismo della risurrezione e per lasciarci condurre dal Signore sulle strade che Egli vuole indicarci.
Sperimentiamo ancora tante resistenze interiori che non ci permettono di metterci in movimento, tante resistenze. A volte, come Chiesa, siamo sopraffatti dalla pigrizia e preferiamo restare seduti a contemplare le poche cose sicure che possediamo, invece di alzarci per gettare lo sguardo verso orizzonti nuovi, verso il mare aperto. Siamo spesso incatenati come Pietro nella prigione dell’abitudine, spaventati dai cambiamenti e legati alla catena delle nostre consuetudini. Ma così si scivola nella mediocrità spirituale, si corre il rischio di “tirare a campare” anche nella vita pastorale, si affievolisce l’entusiasmo della missione e, invece di essere segno di vitalità e di creatività, si finisce per dare un’impressione di tiepidezza e di inerzia. Allora, la grande corrente di novità e di vita che è il Vangelo – scriveva padre de Lubac – nelle nostre mani diventa una fede che «cade nel formalismo e nell’abitudine, […] religione di cerimonie e di devozioni, di ornamenti e di consolazioni volgari […]. Cristianesimo clericale, cristianesimo formalista, cristianesimo spento e indurito» (Il dramma dell’umanesimo ateo. L’uomo davanti a Dio, Milano 2017, 103-104).
Il Sinodo che stiamo celebrando ci chiama a diventare una Chiesa che si alza in piedi, non ripiegata su sé stessa, capace di spingere lo sguardo oltre, di uscire dalle proprie prigioni per andare incontro al mondo, con il coraggio di aprire le porte. Quella stessa notte, c’era un’altra tentazione (cfr At 12,12-17): quella ragazza spaventata, invece di aprire la porta, torna indietro a raccontare delle fantasie. Apriamo le porte. È il Signore che chiama. Non siamo come Rode che torna indietro.
Una Chiesa senza catene e senza muri, in cui ciascuno possa sentirsi accolto e accompagnato, in cui si coltivino l’arte dell’ascolto, del dialogo, della partecipazione, sotto l’unica autorità dello Spirito Santo. Una Chiesa libera e umile, che “si alza in fretta”, che non temporeggia, non accumula ritardi sulle sfide dell’oggi, non si attarda nei recinti sacri, ma si lascia animare dalla passione per l’annuncio del Vangelo e dal desiderio di raggiungere tutti e accogliere tutti. Non dimentichiamo questa parola: tutti. Tutti! Andate all’incrocio delle strade e portate tutti, ciechi, sordi, zoppi, ammalati, giusti, peccatori: tutti, tutti! Questa parola del Signore deve risuonare, risuonare nella mente e nel cuore: tutti, nella Chiesa c’è posto per tutti. E tante volte noi diventiamo una Chiesa dalle porte aperte ma per congedare gente, per condannare gente. Ieri uno di voi mi diceva: “Per la Chiesa questo non è il tempo dei congedi, è il tempo dell’accoglienza”. “Non sono venuti al banchetto…” – Andate all’incrocio. Tutti, tutti! “Ma sono peccatori…” – Tutti!
La seconda Lettura, poi, ci ha riportato le parole di Paolo che, ripercorrendo tutta la sua vita, afferma: «Ho combattuto la buona battaglia» (2 Tm 4,7). L’Apostolo si riferisce alle innumerevoli situazioni, talvolta segnate dalla persecuzione e dalla sofferenza, in cui non si è risparmiato nell’annunciare il Vangelo di Gesù. Ora, alla fine della vita, egli vede che nella storia è ancora in corso una grande “battaglia”, perché molti non sono disposti ad accogliere Gesù, preferendo andare dietro ai propri interessi e ad altri maestri, più comodi, più facili, più secondo la nostra volontà. Paolo ha affrontato il suo combattimento e, ora che ha terminato la corsa, chiede a Timoteo e ai fratelli della comunità di continuare questa opera con la vigilanza, l’annuncio, gli insegnamenti: ciascuno, insomma, compia la missione affidatagli e faccia la sua parte.
È una Parola di vita anche per noi, che risveglia la consapevolezza di come, nella Chiesa, ciascuno sia chiamato ad essere discepolo missionario e a offrire il proprio contributo. E qui mi vengono in mente due domande. La prima è: cosa posso fare io per la Chiesa? Non lamentarsi della Chiesa, ma impegnarsi per la Chiesa. Partecipare con passione e umiltà: con passione, perché non dobbiamo restare spettatori passivi; con umiltà, perché impegnarsi nella comunità non deve mai significare occupare il centro della scena, sentirsi migliori e impedire ad altri di avvicinarsi. Chiesa in processo sinodale significa: tutti partecipano, nessuno al posto degli altri o al di sopra degli altri. Non ci sono cristiani di prima e di seconda classe, tutti, tutti sono chiamati.
Ma partecipare significa anche portare avanti la “buona battaglia” di cui parla Paolo. Si tratta in effetti di una “battaglia”, perché l’annuncio del Vangelo non è neutrale – per favore, che il Signore ci liberi dal distillare il Vangelo per renderlo neutrale: non è acqua distillata il Vangelo –, non lascia le cose come stanno, non accetta il compromesso con le logiche del mondo ma, al contrario, accende il fuoco del Regno di Dio laddove invece regnano i meccanismi umani del potere, del male, della violenza, della corruzione, dell’ingiustizia, dell’emarginazione. Da quando Gesù Cristo è risorto, facendo da spartiacque della storia, «è iniziata una grande battaglia tra la vita e la morte, tra speranza e disperazione, tra rassegnazione al peggio e lotta per il meglio, una battaglia che non avrà tregua fino alla sconfitta definitiva di tutte le potenze dell’odio e della distruzione» (C. M. Martini, Omelia Pasqua di Risurrezione, 4 aprile 1999).
E allora la seconda domanda è: cosa possiamo fare insieme, come Chiesa, per rendere il mondo in cui viviamo più umano, più giusto, più solidale, più aperto a Dio e alla fraternità tra gli uomini? Non dobbiamo certamente chiuderci nei nostri circoli ecclesiali e inchiodarci a certe nostre discussioni sterili. State attenti a non cadere nel clericalismo, il clericalismo è una perversione. Il ministro che si fa clericale con atteggiamento clericale ha preso una strada sbagliata; peggio ancora sono i laici clericalizzati. Stiamo attenti a questa perversione del clericalismo. Aiutiamoci ad essere lievito nella pasta del mondo. Insieme possiamo e dobbiamo porre gesti di cura per la vita umana, per la tutela del creato, per la dignità del lavoro, per i problemi delle famiglie, per la condizione degli anziani e di quanti sono abbandonati, rifiutati e disprezzati. Insomma, essere una Chiesa che promuove la cultura della cura, della carezza, la compassione verso i deboli e la lotta contro ogni forma di degrado, anche quello delle nostre città e dei luoghi che frequentiamo, perché risplenda nella vita di ciascuno la gioia del Vangelo: questa è la nostra “battaglia”, questa è la sfida. Le tentazioni di rimanere sono tante; la tentazione della nostalgia che ci fa guardare altri sono stati tempi migliori, per favore non cadiamo nell’“indietrismo”, questo indietrismo di Chiesa che oggi è alla moda.
Fratelli e sorelle, oggi, secondo una bella tradizione, ho benedetto i Palli per gli Arcivescovi Metropoliti di recente nomina, molti dei quali partecipano alla nostra celebrazione. In comunione con Pietro, essi sono chiamati ad “alzarsi in fretta”, non dormire, per essere sentinelle vigilanti del gregge e, alzati, “combattere la buona battaglia”, mai da soli, ma con tutto il santo Popolo fedele di Dio. E come buoni pastori devono stare davanti al popolo, in mezzo al popolo e dietro al popolo, ma sempre con il santo popolo fedele di Dio, perché loro sono parte del santo popolo fedele di Dio. E di cuore saluto la Delegazione del Patriarcato Ecumenico, inviata dal caro fratello Bartolomeo. Grazie! Grazie per la vostra presenza e del messaggio di Bartolomeo. Grazie, grazie di camminare insieme, perché solo insieme possiamo essere seme di Vangelo e testimoni di fraternità.
Pietro e Paolo intercedano per noi, intercedano per la città di Roma, intercedano per la Chiesa e per il mondo intero. Amen.