LA DESERTIFICAZIONE DELL’UNIBAS
Vicino il punto di non ritorno, nel 2040 rischia di diventare un Ateneo fantasma. Drastico calo degli iscritti e sconsiderata dispersione delle potenzialità. Il prossimo paradosso: più dipendenti e Prof che studenti
Di Paride Leporace
Il prossimo 6 marzo il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, verrà a Potenza per inaugurare il nuovo anno accademico per i 40 anni della nascita dell’ateneo di Basilicata. Una data significativa per la storia della regione, che si seppe rimettere in cammino a tre anni dal terribile terremoto del 1980. Credo sia giusto evidenziare che nel condivisibile clima di festa per la ricorrenza, si deve anche guardare al futuro che non si prospetta per nulla roseo per il locale ateneo. Gli ultimo dati del sito del Miur su Unibas riferiscono di 5871 iscritti con 876 immatricolati nel 2021/22, non arrivano a 70 gli stranieri. Dieci anni fa la popolazione studentesca era di 8000 e le matricole raggiungevano quasi quota 1500. In queste ore è stato diffuso uno studio realizzato da “Talents venture”, società indipendente specializzata in istruzione universitaria, che in base a tendenze che ben conosciamo, dati alla mano, incrociando crisi di natalità e giovani che lasciano i propri luoghi di residenza, ha analizzato nel suo report che al 2040 nel meridione d’Italia si rischiano di creare degli “atenei fantasmi, università che, rimaste a presidio dei territori, potrebbero essere frequentate solo da chi ci lavora”. L’Unibas non è l’unico, ma è l’ateneo che corre questo rischio più degli altri. I grafici del report sono plasticamente spietati. Le immatricolazioni dei corsi di laurea in Basilicata hanno in larga parte un massimo di 20 iscritti, nel resto d’Italia viaggiano sopra questa soglia e superano i 50, anche Molise e Valle D’Aosta hanno performances superiori a quelle delle matricole lucane. Nel 2040, con le proiezioni ben note anche se spesso dimenticate dalla politica di ogni ruolo e colore, la popolazione di giovani lucani tra i 18 e i 21 anni, quelli che sono nati tra il 2019 e il 2022, per il calo della natalità toccherà il -33 per cento. Considerato che Unibas non ha una politica di attrazione sostanziale verso i fuori sede, neanche quelli di prossimità da regioni vicine, già nel 2030 ci dovremmo trovare con una variazione di nuovi iscritti lucani tra il 15 e il 24 per cento. Rischiamo di osservare mestamente un ateneo che diventa una sorta di cattedrale nel deserto di una regione costellata da cento paesi abitati di anziani. La sfida va invertita adesso. La Regione ha da poco siglato un accordo con Unibas in cui si stanziano 42 milioni di euro per i prossimi tre anni al fine di “sostenere il sistema universitario lucano ed elevarne la qualità e la competitività affinché esso consegua una posizione di crescente autonomia, di prestigio e di visibilità a livello nazionale e accrescere la sua capacità di attrazione nei confronti del bacino di utenza potenziale”. Alla luce dei numeri elencati, con tutta la buona volontà di questo mondo, non riesco a intravvedere prestigio, visibilità nazionale e tanto meno la capacità di attrazione. Se sconfiggere lo spopolamento lucano è impresa ardua, anche se cimentarsi sulla risoluzione del problema è obbligo per tutti, la sfida dell’università mi sembra essere quella decisiva per i lucani che verranno. Ormai, spesso, con le matricole verso gli atenei del Nord, partono anche gli anziani genitori che preferiscono trovare in diversi altrove la loro terza età. Che fare allora? L’Unibas non può permettersi di essere una università assistita dai fondi regionali a uso e consumo di baronie che guardano al solo interesse di bottega. C’è bisogno di strategie veloci e che vadano a intercettare risultati migliori. I suoi piccoli numeri in termini di studenti devono essere riconvertiti ad un ruolo di eccellenza che produca maggiore ricerca specializzata e brevetti che migliorino l’attrattività dell’università. Le università sono il cuore pulsante delle città che le gemmano e le accompagnano nella vita a misura di studente. Potenza, capoluogo di Regione, e sede centrale delle maggiori facoltà, ad osservarla non ha nulla di una città universitaria. Uffici e studenti nascosti tra Macchia Romana e il Francioso non hanno mai espresso una componente maggioritaria nel corpo della città lontana dal fervore degli studi e dell’effervescenza giovanile. A Matera le facoltà sono poche e molto tradizionali. Le vocazioni della città non sono esal tate fatto salvo un corso di operatore dei Beni culturali, e le facoltà di Architettura, Antropologia e Archeologia. Assente il turismo e il cinema, e su questo versante grida scandalo l’inganno di una sede periferica del Centro Sperimentale di cinematografia più volte annunciata e mai aperta. E’ evidente che si corre verso il deserto. Bisogna puntare ad attrarre regioni che vengono da altri posti del mondo. L’appeal di Matera, capitale della cultura europea e luogo di grande bellezza antropologica e umanistica, potrebbe essere popolata da studenti universitari che troverebbero il senso dell’apprendere e del loro futuro anche nelle nostre latitudini che necessitano di nuovi abitanti del XXI secolo. C’è bisogno di invertire le tendenze con nuove strategie e opportunità che non possono cadere dal cielo come la manna come racconta la Bibbia al tempo della fuga in Egitto. Oggi noi abbiamo la fuga di massa dei giovani cervelli lucani. Nella vicina Calabria, l’Unical, nell’ultimo anno accademico ha ricevuto 5000 domande d’iscrizione da 90 paesi extraeuropei per aggiudicarsi i 900 posti disponibili di corsi specialistici che vengono tenuti in lingua inglese. Sono l’intero numero degli studenti lucani. Anche la Basilicata potrebbe competere ad attrarre questa platea di studenti stranieri. C’è bisogno però di governance, di progettazione e programmi di internazionalizzazione che vadano a identificare e raggiungere gli obiettivi. L’assistenzialismo economico garantito non invertirà altrimenti le tendenze, e la Basilicata e il suo ateneo continueranno a spopolarsi. E non sarà l’apertura di una facoltà di Medicina a risolvere il problema. Avremo solo qualche nuovo medico in più, che magari finirà a lavorare a gettone.