IL COLONNELLO CALCAGNI “EROE PER GLI ALTRI”
«Mai avrei immaginato che non ci informassero del nemico Uranio Impoverito. Ora la mia missione è per la vita»
“Arrendersi mai!” è questo il motto del Colonnello Carlo Calacagni, Arrendersi mai, sul campo di battaglia come nella vita, quando questa viene minata dalla malattia. Ufficiale del Ruolo d’Onore dell’Esercito Italiano, paracadutista e pilota istruttore di elicotteri. Un militare, servitore dello Stato e Vittima del Dovere.
Ma è nelle missioni all’estero che la vita del colonnello cambia: tra le tante, quella in Bosnia -Erzegovina, in cui col suo elicottero recupera corpi dilaniati dalle bombe e feriti mutilati. Il sangue scorre, ma Calcagni abbraccia quei fratelli, per portarli in salvo. Sa, come lui stesso dice, che un angolo di cielo è sempre pronto per i soldati, ma non si ferma.
Ciò che non sa è che invece un nemico subdolo e letale combatte contro, e si chiama Uranio Impoverito. Cronache lo ha raggiunto, per approfondire e raccontare la sua storia.
Come iniziò la sua carriera militare?
«Sono un Ufficiale del Ruolo d’Onore dell’Esercito Italiano, paracadutista e pilota istruttore di elicotteri. Un militare, servitore dello Stato e Vittima del Dovere. Chi è stato un militare, lo sarà per sempre. Considero la mia professione una vera e propria passione, che mi ha permesso di mettere la mia vita a disposizione degli altri, indossando una divisa. A 20 anni decido di intraprendere la carriera militare, arruolandomi nel 1988, e brucio le tappe: Allievo Ufficiale a Cesano di Roma, poi Sottotenente e destinato alla Scuola di Paracadutismo di Pisa, dove vengo raffermato dopo aver vinto un concorso. Vinco anche un altro concorso e frequento il Corso Ufficiali Piloti Osservatori di Elicottero, risultando il primo. Fin dai miei iniziali ruoli e incarichi, ho sempre assolto il mio dovere con fedeltà, spirito di servizio, assoluta abnegazione. La divisa per me è la Patria e racchiude tutto ciò che rappresenta: Onore, dignità, umiltà, determinazione, carattere, disponibilità verso gli altri, amore per il prossimo, sacrificio, coraggio e speranza. Vuol dire servire lo Stato, che siamo noi cittadini. Vuol dire andare avanti, sempre, nonostante tutto».
Dopo la strage di Falcone viene impiegato anche in Sicilia e poi in Calabria nell’operazione Riace, che anni furono?
«Come elicotterista ho partecipato a molte missioni, come l’operazione Vespri Siciliani, successiva alla strage di Capaci del ‘92, con trasporto di magistrati, ricognizioni e pattugliamenti; le imponenti operazioni Partenope in Campania e Riace in Calabria contro la criminalità organizzata e varie attività di soccorso tra cui l’alluvione di Sarno nel ‘98. L’epoca stragista è certamente una delle pagine più buie della Storia dell’Italia Repubblicana. I confini tra Legalità, Giustizia, Libertà e Criminalità sono diventati labili, considerata la delicatissima questione della Trattativa Stato-Mafia. Dopo la morte dell’amico e collega Giovanni Falcone, il Giudice Paolo Borsellino si sentì profondamente solo, svuotato, ma continuò a lavorare incessantemente. Seppur attorniato dalla “palude” – come egli ripeteva – e abbandonato in una attanagliante solitudine, il lavoro del giudice Borsellino fu solenne. Le mafie hanno un saldo appoggio nella politica, un cospicuo sostegno nell’economia. Ebbene, da quella stessa “palude” a cui alludeva il giudice Borsellino mi sento attorniato io, in un assordante silenzio, nell’indifferenza delle Istituzioni, alla ricerca intrepida di Rispetto, Verità e Giustizia».
Tra le missioni internazionali, come in Turchia e Albania, ricordiamo la Missione di Pace Internazionale in Bosnia-Erzegovina. Cosa accadeva?
«Sono un convinto patriota. Ubbidiamo ai nostri superiori, sempre. Per quelli come me è anche un modo di riverire e rispettare la Patria. Nessuno di voi, tuttavia, pensi che si possa andare in missione in teatri di guerra a prestare soccorso a corpi dilaniati dalle bombe solo per un salario, anche se di tutto rispetto. Senza una fervida fede, non si possono affrontare dolore, privazioni, disagio. Io c’ero in quei teatri di sangue: con l’elicottero cercavo di salvare vite umane. Scendevo a terra, abbracciando quei fratelli feriti e li portavo via da quei campi di morte. Io sapevo, tutti noi sappiamo che un angolo di cielo è sempre pronto per noi soldati. Questa consapevolezza rende solo più orgogliosi e ancor più determinati nell’assolvere il proprio dovere. Mai avrei potuto immaginare che qualcuno fosse a conoscenza, senza informare chi come noi era in prima linea, di un altro nemico, più subdolo, più crudele, più vigliacco, di cui nessuno parla, ma che ha un nome ed un cognome: Uranio Impoverito. La giustizia, forse, un giorno farà luce su questa crudeltà, ma intanto si contano i morti, purtroppo tanti, troppi. Nessuno può immaginare le conseguenze del servizio prestato né le sofferenze indicibili, che quotidianamente sono costretto a sopportare. Il dolore, la sofferenza, le privazioni si accumulano alla rabbia, quando scopri che il tuo corpo si sta distruggendo non per un colpo di fucile, non per l’esplosione di una mina, ma per un vile attentato alla tua vita da parte di chi avrebbe dovuto proteggerla e tutelarti: la tua stessa Patria. Vorrei tanto sperare che non sia così, ma devo andare avanti. Sono un padre, sono un figlio e sono un uomo, prima ancora che un militare. Un uomo che ama smisuratamente la vita, dolceamara, invincibile, fiera e meravigliosa, sempre e comunque».
Quando però la vita sua vita cambia, con una diagnosi inaspettata?
«Da tempo ero rientrato dalla Bosnia. Due anni prima ero stato selezionato, come uno dei 3candidati idonei per partecipare al corso istruttori piloti. Nel 2002 nel corso di una visita medica di routine in ambito professionale, viene riscontrato un rialzo dei valori ematici degli indici di funzionalità epatica. In quel periodo, durante gli allenamenti inizio ad avvertire fatica e malessere generale che non mi contraddistinguono. Così rientro in Puglia per indagini cliniche più approfondite. Si evidenziano inizialmente problematiche a livello epatico e disfunzione tiroidea, ma dopo una biopsia epatica ed una midollare, vengono attribuite alla presenza di metalli pesanti nel sangue. Nel corso della missione di pace in Bosnia era avvenuto il contatto con le polveri sottili di metalli pesanti derivanti dall’esplosione di munizioni con uranio impoverito, facilmente inalabili, e con altre sostanze tossiche (piombo, arsenico, nickel, cesio, mercurio…). La malattia, per me come per tanti colleghi, esordisce in maniera silenziosa, colpendo ogni singolo organo, tessuto, cellula dell’organismo, per non abbandonarlo mai più. Da allora ha inizio un calvario di sofferenze: Nel 2005 viene riconosciuta la causa di servizio per l’epatite e l’ipotiroidismo, 2anni dopo viene accertato dalle Commissioni Mediche Militari il nesso causale tra quanto da me sofferto e l’esposizione a metalli pesanti. Mi viene riconosciuta un’invalidità permanente del 100% e concesso il Distintivo d’Onore di Ferito in Servizio ed il Distintivo d’Onore di Mutilato in Servizio, mi vengono riportate le diagnosi di “Sindrome Mielodisplastica Secondaria, mancato funzionamento di ipotalamo ed ipofisi, insufficienza renale cronica, riscontro di corpi estranei metallici non asportabili ed encefalopatia tossica da metalli pesanti”. Tutti noi conosciamo cosa significhi essere ammalati, eppure sino al minuto prima di ammalarci, nemmeno ci accorgiamo di quanto valga lo stato di buona salute. Po i è giunta la cardiopatia diastolica ventricolare, demielinizzazione delle fibre nervose (soprattutto encefaliche) di tipo autoimmune, poli-neuropatia, atassia muscolare, fibromialgia e sindrome di affaticamento cronico, fino alla diagnosi di Morbo di Parkinson risalente all’anno 2015. Ogni mia giornata, da oltre 20anni, è scandita dai ritmi delle terapie farmacologiche, delle sedute di plasmaferesi ospedaliere, dell’ossigenoterapia, delle flebo e delle centinaia di compresse da ingerire, dal rumore del ventilatore polmonare notturno, strumenti necessari al mio corpo per poter sopravvivere. Nonostante questa straziante sofferenza, fisica e psicologica, io continuo ad amare smisuratamente la vita e gli altri esseri umani e lotto quotidianamente per continuare a vedere nuove albe, pronunciando, ad ogni risveglio, il mio grato “Sì” alla Vita stessa».
Combatte con lo sport e con la grinta per sé e per gli altri. Come trova questa forza?
«La mia passione da sempre, la bicicletta, si è adattata grazie al mio ingegno, alla nuova tormentata situazione clinica che sono costretto a vivere. Quanto dolore e quanta vergogna i primi giorni, quando la Commissione Medica della Federazione Ciclistica Italiana ha sentenziato questa necessità. Vivo vagando da un ospedale all’altro. Quintali di medicine, palliativi solo per tentare di preservare e rallentare la malattia. Purtroppo, non è successo solo a me. Ci sono tanti altri commilitoni, ragazzi che muoiono lentamente senza reagire, abbandonandosi alla rassegnazione, alzando bandiera bianca. Allora io ho riscoperto un nuovo senso per la mia esistenza, mi sento ingaggiato in una nuova missione: li esorto costantemente a vivere, lottare, crederci e soffrire, ma mai arrendersi. Tutto ha un senso. Sta a ciascuno di noi sforzarsi di comprenderlo. Le missioni militari di un tempo si legano con un sottile fil rouge alla mia attuale mission umana e civile: continuare a salvare vite umane. Sul mio triciclo volante ho ripreso in altre forme quel volo interrotto, con altre ali: i pedali e la mente. Sono anche stato insignito del Premio internazionale Don Pino Puglisi “per il mio donarmi agli altri senza nulla chiedere”. Insieme ai membri del mio Team Calcagni, cerco di testimoniare come lo sport sia veicolo di valori positivi, e dimostrare come lo Sport, quale stile di vita, possa dare le giuste motivazioni a (r)esistere, fornendo la necessaria spinta a combattere e la fondamentale passione per la vita, per sé e per gli altri. Ogni singola pedalata vuole celebrare la forza e la bellezza della vita, soprattutto quando essa viene danneggiata per sempre. Sono stato educato alla disciplina fin da ragazzo: il duro e solerte lavoro nei campi della terra salentina è stato palestra di vita, poi il mondo militare e quello sportivo sono una costante salita che, al pari della vita, è fatica, è sudore. La vita, lo sport sono fatti di salite, di discese, di cadute e di ripartenze. Si può cadere, ma bisogna rialzarsi. Alla base di tutto c’è la forza di volontà. Ecco, la mia testimonianza vuole essere di sprone e di stimolo per tanti e soprattutto per quelli che devono trovare la forza per poter superare paure e difficoltà. La forza di volontà può tutto».