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9 OTTOBRE 1963 ~ 9 OTTOBRE 2023 COSA È CAMBIATO 60 ANNI DOPO IL DISASTRO DEL VAJONT?

Tra i tanti errori gli addetti ai lavori pensarono di poter controllare la frana: un disastro annunciato costato la vita a quasi 2000 persone

#ègiustoinformare


9 OTTOBRE 1963 ~ 9 OTTOBRE 2023 COSA È CAMBIATO 60 ANNI DOPO IL DISASTRO DEL VAJONT? 

🔹60 anni fa ci fu il disastro del Vajont: la ricostruzione degli errori umani principali

🔺Tra i tanti errori gli addetti ai lavori pensarono di poter controllare la frana: un disastro annunciato costato la vita a quasi 2000 persone

👉🏾 la ricostruzione

La costruzione della diga del Vajont

La diga del Vajont fu progettata dall’ingegnere Carlo Semenza e venne costruita tra il 1956 e il 1960.
A volere questa mega struttura fu la Società Adriatica di Elettricità, conosciuta come SADE

🔺Perché c’era la necessità di costruire una diga?

Il progetto di per sé era pazzesco dal punto di vista ingegneristico, un vero portento per l’economia dell’epoca, perché l’idroelettrico era una delle principali fonti di energia in Italia (come oggi d’altronde) e il sistema del Grande Vajont avrebbe contribuito ad alimentare praticamente tutto il Triveneto.

Ma gli ingegneri fecero i conti senza l’oste: la vallata era inadatta alla costruzione di un bacino artificiale, proprio per l’instabilità dei versanti dell’invaso.
Ma quando nel 1957 partirono i lavori, nessuno lo aveva preso in considerazione seriamente.

Due segnali prima della grande frana

Prima della grande frana, avvenuta il 9 ottobre 1963, ci furono già dei segnali inquietanti: nel 1959, 3 milioni di m3 di roccia franarono nel bacino di Pontesei, uno dei bacini del sistema del Grande Vajont; non ci furono danni ma si accese il campanello d’allarme degli addetti ai lavori e non solo.
Il campanello di allarme divenne ancor più forte con il 4 novembre del 1960 quando ci fu un’altra frana, più piccolina, ma avvenne proprio nel bacino della diga del Vajont, e provocò un’onda di due metri. Non ci furono danni o vittime perché l’acqua non superò la diga ma da quel momento lo stesso Carlo Semenza cominciò ad essere seriamente preoccupato.
Furono coinvolti tanti esperti, geologi, geofisici, ingegneri, che commisero tanti errori, di valutazione e di interpretazione non capendo che lì poteva venire giù “tutto”

🔺Chi erano Leopold Muller e Edoardo Semenza

A questo punto entrano in scena due dei personaggi principali della storia: il primo fu il geologo Leopold Muller, considerato uno dei pionieri della geomeccanica; mi permetto di dire che era più vicino ad un profilo di ingegnere geotecnico che di puro geologo naturalista; di frane infatti non era un esperto.

A dirla tutta, a quei tempi non c’erano grandi esperti di frane perché le frane cominciarono ad essere studiare con una metodologia nuova e un livello di dettaglio alto proprio dopo il disastro del Vajont.
So che è triste ma è la realtà dei fatti.
E vi dirò di più, non solo le frane si cominciarono a studiare ad un certo livello, ma un intero ramo scientifico, la geotecnica, nacque per davvero dopo il disastro del Vajont.
Il 1963 è stato l’inizio di una nuova epoca per le scienze geotecniche, dello studio dei suoli, dei versanti, delle frane e della meccanica delle rocce.
Oltre Muller c’era Edoardo Semenza, figlio di Carlo Semenza, il progettista della diga.
Muller era un gigante, Edoardo era di gran lunga meno titolato: un ragazzo sulla trentina, da poco laureato.
Dal momento che si formò una grossa e visibile frattura sulla montagna, entrambi, come tutti gli altri esperti coinvolti, erano d’accordo che ci fosse una frana ma avevano un’interpretazione diversa del tipo di frana e del tipo di pericolo.

Muller riteneva che la frana fosse una frana geologicamente recente, e che fosse caratterizzata da un movimento lento, come un ghiacciaio.
Invece, secondo il giovane Edoardo, che andò ad analizzare con gli occhi ogni metro quadro della montagna (con approccio puramente empirico e scientifico), la frana era una paleofrana, cioè vecchia, che esisteva da chissà quanto tempo.
Secondo lui avrebbe potuto distaccarsi improvvisamente, scivolando con un movimento relativamente repentino, e finire nel bacino causando onde mostruose e danni inimmaginabili.
Edoardo sembrò il “catastrofista” della situazione e infatti nessuno gli diede troppo conto: era troppo giovane e troppo inesperto affinché la sua teoria fosse presa in seria considerazione.

🔺La vera causa della frana del Vajont?

La frana si muoveva di circa 3 cm al giorno, sembrava essere lenta come diceva Muller; e Muller pensò anche una cosa: che la velocità della frana dipendeva da quanta acqua era presente nel lago artificiale della diga.
Più acqua c’era, più la frana si muoveva velocemente.
Il motivo era legato alla presenza di un livello argilloso, al di sotto delle rocce affioranti in superficie, che assorbendo acqua, fungeva da lubrificante, e favorendo lo scivolamento.
“Caspita” – pensarono tutti – “ma quindi se si fa diminuire il livello dell’acqua, la frana scivolerà più lentamente?!”
Sembrava essere cosi…in realtà lo era per davvero: facendo scendere il livello dell’acqua, infatti, si passò da 3 cm al giorno a 1 mm al giorno.

Ecco, questo fu il più grande errore:
si insinuò la convinzione di avere la soluzione del problema in pugno: ovvero di poter utilizzare l’acqua come una specie di freno e acceleratore, così controllare lo scivolamento della frana.
Si voleva far scivolare la frana appositamente cosi da evitare un crollo unico improvviso che poteva fare chissà quali danni.

🔺La tecnica di variare il livello dell’acqua fu portata avanti per ben due anni

A giugno del 1963 il livello di piena del bacino raggiunse i 700 m s.l.m riportando la frana a uno scivolamento di 5 mm al giorno.
In quel periodo ci fu un passaggio di consegne nella gestione dell’impianto dal privato al pubblico, e proprio in quel periodo (e qui ci fu un altro errore enorme da parte di tante persone e addetti ai lavori) il livello del bacino venne abbassato con ritardo:
l’acqua arrivò fino a circa 710 m s.l.m e la frana raggiunse una velocità di 2 cm al giorno.
Solo il 26 settembre del 1963 il bacino venne riportato al livello di sicurezza, ma era ormai troppo tardi.

🔺Cosa successe il giorno della frana del Vajont?

Il 9 ottobre del 1963, alle 22.39, era ormai buio, avvenne quello che Edoardo Semenza aveva pronosticato: 270 milioni di m3 di roccia, parliamo di un’intera facciata di una montagna, si staccarono dal monte Toc (misura che nessuno era riuscito a prevedere prima dell’evento);
il movimento della frana fu rapido; immaginate di tagliare una fetta di montagna e far penetrare dell’olio lubrificante nella frattura;
la frana scivolò giù tutta d’un pezzo nel giro di 20 o 30 secondi, ad una velocità tra i 70 e i 90 km orari.

Quando arrivò nel bacino, si generò un’onda mostruosa, che risalì il pendio della montagna di fronte, fino quasi a sfiorare Casso; parte del comune di Erto, sempre sulla sponda opposta fu distrutto; 

la precisa dinamica dei movimenti dell’acqua non sono stati ripresi da nessuna cinepresa dell’epoca per cui non esistono immagini reali ma l’onda fu talmente grande, che una buona parte dell’acqua messa in moto scavalcò letteralmente la diga, finendo giù nella vallata con una violenza tale da distruggere l’abitato di longarone.

🔺Purtroppo le vittime furono 1920

🔹Tre spunti di riflessione sulla frana del Vajont
Il disastro del Vajont è un tragico evento che, oggi, a distanza di sessant’anni dovrebbe far riflettere su alcuni punti.

👉🏾Siamo formiche nei confronti dei fenomeni naturali; dobbiamo ricordarci che con la natura non si scherza, altrimenti si rischia di farsi molto male.
👉🏾Gli interessi economici e politici troppo spesso hanno il sopravvento sull’ambiente; oggi forse rispetto al 1963, qualcosa è migliorato, ma siamo ancora molto lontani da dove dovremmo essere.
👉🏾In questo contesto la divulgazione scientifica e culturale giocano e giocheranno un ruolo molto importante per diffondere una responsabilità ulteriore nei confronti degli ambienti dove viviamo.
👉🏾Troppo spesso capiamo le cose solo dopo che ci siano tragedie, disastri o vittime.
Dopo il disastro del Vajont esplose un grande interesse sulla geologia e sugli eventi franosi.
A tal proposito vorrei riprendere un passo di un articolo del 2013 del Dottore Aldo Piombino:
La Geologia Applicata nasce con questa tragedia.
Sì, c’erano già corsi di Geologia Applicata all’Ingegneria, ma la maggior parte di chi si occupava dell’argomento erano ingegneri, non geologi.
Anche Leopold Muller era un ingegnere, sia pure un “ingegnere geologo”, come ci sono gli edili, i meccanici, gli elettronici etc etc.
È da quel momento che nel mondo delle Scienze della Terra qualcuno comincia ad occuparsi anche di frane, falde acquifere, prove sui materiali, deformazioni e quant’altro oltre ai tanti che fino ad allora si erano occupati della storia della Terra, dei vulcani e di come sono sorte le catene montuose.

La frana del Vajont, avvenuta il 9 ottobre del 1963, è forse l’esempio più tragico di un disastro naturale innescato dall’attività dell’uomo

Fu la conseguenza di conoscenze tecniche ancora acerbe, errori, considerazioni e interpretazioni tecniche sbagliata da parte del fior fior degli ingegneri, geologi e geofisici dell’epoca

Disastro del Vajont, 60 anni fa una delle più grandi tragedie italiane: oltre 1.910 vittime

La sera del 9 ottobre 1963, una gigantesca frana ha cancellato in pochi minuti intere comunità al confine tra Veneto e Friuli Venezia Giulia uccidendo 1.910 persone

“Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia”

Con questa metafora Dino Buzzati, allora cronista del Corriere della Sera, descriveva il disastro del Vajont il 9 ottobre 1963


A distanza di 60 anni da una delle più grandi tragedie del nostro Paese, sono ancora molti gli interrogativi ancora da chiarire.

I fatti 

Era la sera del 9 ottobre 1963, quando alle ore 22:39, una frana gigantesca (oltre 270 milioni di metri cubi di roccia) crollò dalle pendici del monte Toc e precipitò nel sottostante invaso del Vajont.

Si sollevarono tre enormi onde, di cui una superò di 250 m in altezza il coronamento della diga e in parte risalì il versante opposto distruggendo tutti i centri abitati lungo le sponde del lago nel comune di Erto e Casso.
La furia dell’acqua si riversò nella valle del Piave, distruggendo quasi completamente il paese di Longarone e i comuni limitrofi, e in parte ricadde sulla frana stessa creando un laghetto e precipitando verso Longarone.

Le vittime furono 1.910, di cui 1450 a Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e 200 originarie di altri comuni.

Le cause Il disastro del Vajont fu dovuto a una serie di eventi e di cause concatenate tra loro


Tra le principali, l’innalzamento delle acque del lago artificiale oltre la quota di sicurezza di 700 metri voluto dall’ente gestore, operazione effettuata ufficialmente per il collaudo dell’impianto.


Furono però anche le abbondanti piogge e le forti negligenze, accertate da un’inchiesta successiva, nella gestione dei possibili pericoli dovuti al particolare assetto idrogeologico del versante del monte Toc.


Questi fattori favorirono lo spostamento dell’antica frana sul versante settentrionale della montagna.
Eppure, nei mesi e nelle settimane precedenti la tragedia, il timore serpeggiava tra gli abitanti dei paesi limitrofi.

L’inchiesta

Sono in molti infatti, a descrivere il disastro del Vajont come una “tragedia annunciata
A pochi giorni dall’evento, la magistratura aprì un’indagine, vennero nominate commissioni d’inchiesta per stabilire se si fosse trattato di un disastro naturale o di un errore umano.
Tra i capi d’accusa, cooperazione in disastro colposo (sia di frana che di inondazione), omicidio e lesioni colpose plurimi.
Vennero indagati alcuni dirigenti e consulenti della SADE e alcuni funzionari del Ministero dei lavori pubblici.
Tutte le relazioni tecniche del caso dimostrarono che la catastrofe del Vajont era prevedibile.


Dopo un processo durato dal 1968 al 1972 vennero condannati Alberico Biadene, un dirigente della Sade, e Francesco Sensidoni, ispettore del Genio civile.

Soltanto Biadene finirà in prigione, per un anno e 6 mesi.
La Sade fu nel frattempo inglobata da Enel e Montedison, condannate a risarcire i danni nel 1997.
Nel 2000 lo Stato italiano dividerà le spese di risarcimento con le due compagnie.

Lo speciale su Focus
A 60 anni dal disastro, lo speciale “Vajont, 9 Ottobre 1963 – la Montagna, la Diga, gli Uomini” che Focus propone lunedì 9 ottobre, in prima serata, indaga sulla tragedia esplorandone i fatti, le cause, l’impatto, gli errori, il dolore, lo scandalo, le ferite nel territorio e nei superstiti, la diga ieri e oggi, l’impegno della scienza applicata perché tali tragedia non possano ripetersi. Il programma, a cura del divulgatore scientifico Luigi Bignami, con la regia di Gianluca Gulluni e Manuele Mandolesi, cerca sul territorio le cause del disastro: e, per la prima volta, mostra in tv l’interno della diga e delle gallerie di servizio che servivano alla manutenzione e al controllo dell’invaso.
Nello speciale, tracciato con foto dell’epoca, immagini d’archivio e riprese delle stesse zone oggi, propone le voci di alcuni testimoni diretti della tragedia; un ricordo dell’accaduto di Mauro Corona, gli interventi di ingegneri e geologi (Piero Gianolla, Università di Ferrara; Giovanni Crosta, Università Milano Bicocca; Emiliano Oddone, Dolomiti Project), e visite, fra i luoghi, al Cimitero Monumentale delle Vittime del Vajont, dove riposano 1.464 vittime (le salme mancanti non sono mai state rinvenute).
La storia “della catastrofe del Vajont iniziata circa 23 anni prima, termina con quattro minuti di apocalisse”, spiega Bignami.
Tra le mete di Bignami anche il Museo Longarone Vajont Attimi di storia:
“Siamo qui per fare rumore – spiega la coordinatrice Sonia Bortoluzzi – per non cadere nell’oblio”

L’apocalisse del Vajont 60 anni dopo: il presidente Mattarella a Longarone. Un viale dedicato ai soccorritori

Al disastro è dedicato anche lo speciale di Focus e uno spettacolo in 130 teatri d’Italia e di altri Paesi di Marco Paolini

Quattro minuti

Quattro minuti sono il tempo che ebbero gli abitanti di Longarone e della valle del Piave per tentare di mettersi in salvo, quella notte del 1963, prima che l’onda generata dalla frana del Toc nell’invaso del Vajont superasse la diga, radendo al suolo il paese.

La visita del presidente Sergio Mattarella
Sessant’anni dopo, l’immane tragedia – che verrà ricordata lunedì 9 ottobre con la visita del Presidente Sergio Mattarella che visiterà il cimitero monumentale e poi la diga – suona nella memoria collettiva come un monito contro l’incoscienza degli uomini.


C’è un prima e un dopo Vajont nella storia del Paese. Sessant’anni non hanno guarito le ferite di queste popolazioni. Erto, Casso e Castelavazzo sono diventati paesi fantasma, con case e finestre sbarrate.
Longarone è stata rifatta a forza di cemento armato.
Delle costruzioni del 1963 sono rimasti in piedi il solitario campanile di Pirago, a nord dell’abitato, e il vecchio palazzo del Comune.

Il marchio del Vajont

I giovani, e i nuovi arrivati con lo sviluppo economico della valle, non sentono addosso il ‘marchio’ del Vajont. Ma per i sopravvissuti (ormai poche decine) il tempo si è fermato alle 22.39 del 3 ottobre 1963. In quei giorni, da quando la Sade aveva iniziato ad abbassare l’acqua dell’invaso – favorendo, si capì poi, lo scivolamento della montagna – la paura serpeggiava nei paesi.

C’erano continui movimenti di materiale dal Toc, la conformazione dei terreni cambiava a vista d’occhio, gli abeti nei boschi si piegavano verso valle.
Poi, alle 22.39 del 9 ottobre, mentre nei bar di Longarone la gente assisteva in tv alla partita di Coppa Real-Glasgow, venne meno all’improvviso la corrente elettrica, e iniziò a tirare un vento forte, quasi bagnato.

Lo tsunami di roccia e fango

L’enorme frana di 260 milioni di metri cubi di roccia e fango si era staccata dal monte Toc e stava precipitando nel bacino sottostante, creando un’onda di 250 metri d’altezza che, in parte, sbattè e risalì sulla montagna opposta, ‘piallando’ la parte bassa di Erto e Casso, in parte si lanciò verso la diga, la scavalcò, e con la forza di 30 milioni di metri cubi d’acqua in viaggio a 80 chilometri orari piombò su Longarone.

Chi ha calcolato quella velocità, ha stimato che quello ‘tsunami’ abbia impiegato 4 minuti per raggiungere la valle del Piave. Una tabula rasa.

“Scrivo da un paese che non esiste più”, iniziò il giorno dopo il suo reportage un giovane inviato della Stampa, Giampaolo Pansa, con un incipit memorabile.

I morti furono 1.910, 460 dei quali bambini sotto i 15 anni. A Longarone, che contò 450 vittime, 305 famiglie scomparvero completamente. Gli altri morti si contarono a Codissago e Castellavazzo (109), Erto e Casso 158, mentre 200 furono le vittime originarie di altri comuni.

La fine della vicenda giudiziaria

La fine della vicenda giudiziaria del Vajont arrivò molti anni dopo, nel 2000, quando lo Stato – e in quota parte Enel e Montedison – pagarono 77 miliardi di lire per i danni morali e materiali alle popolazioni colpite.

Ma i superstiti dovettero subire anche l’offesa dei codicilli, come quello sulla ‘commorienza’ – i casi di morte contemporanea dei genitori e di uno dei figli – scovato da Giovanni Leone, presidente del Consiglio nel 1963, poi divenuto avvocato della Sade-Enel nel processo, che permise di non risarcire i parenti di circa 600 vittime.

Un viale dedicato ai soccorritori

A chi si adoperò per estrarre le salme dal fango e prestò il proprio aiuto per far ripartire la vita interrotta dall’onda del 9 ottobre 1963, sarà intitolato un viale nella Giornata del Soccorritore e sarà uno dei momenti più importanti del 60/o anniversario del Vajont.
Il programma prevede l’alzabandiera in Piazza Tasso e poi la messa nella chiesa parrocchiale.
Alle 11 il corteo si snoderà fino alla zona della fiera, dove alle 11.30 si terrà la cerimonia di dedicazione del Viale Soccorritori del Vajont.

Si tratta della strada su cui si affaccia Longarone Fiere, a testimonianza del legame stretto e inscindibile tra l’opera solidale dei soccorritori del 1963 e la nuova Longarone nata dalla ricostruzione.
Nel pomeriggio ci sarà la proiezione dello spettacolo teatrale Stelle nel Fango, tratto dal libro L’Abbraccio e la parola di Viviana Capraro. Infine, alle 17.30 nell’area della diga, il concerto della Fanfara degli ex congedati della Brigata Cadore.

“Il senso di riconoscenza e gratitudine”

“Nessuna parola può misurare il senso di riconoscenza e gratitudine che le comunità del Vajont esprimono nei confronti dei soccorritori, quelli che sono stati definiti “gli angeli”, esempi di generosità, altruismo e coraggio,” commenta il sindaco di Longarone, Roberto Padrin.

Il Vajont è quella tragedia “che ha fatto emergere la parte peggiore, ma anche la migliore dell’uomo, rappresentata proprio dai soccorritori, a cui dedichiamo un viale”, conclude.

“Anche da quell’esperienza è nato il sistema di Protezione Civile, uno dei più efficienti al mondo”

🔺L’orazione civile di Marco Paolini

Della storia di Longarone, Erto e Casso si è detto e scritto moltissimo. A rinsaldare il ricordo dei quasi 2.000 morti fu l’orazione civile di Marco Paolini, nel 1993.
Il racconto teatrale messo in scena dalla Diga risvegliò in tutti, con la forza della tv, la consapevolezza di quanto l’incuranza delle regole, e le negligenze dello Stato e dei soggetti economici abbiano peso sulle ‘catastrofi naturali’


E il 9 ottobre sarà ancora la parola della cultura a ricordare la tragedia del Vajont.
Marco Paolini ha riscritto il suo racconto, con la collaborazione di Marco Martinelli, e “VajontS 23” diventerà “un’azione corale di teatro civile”. verrà rappresentato in oltre 130 teatri, dall’Alto Adige alla Sicilia e all’estero, da grandi attori e allievi, nei teatri stabili e in quelli di ricerca, dallo Strehler di Milano ai piccoli teatri di provincia.
VajontS 23 Marco Paolini l’ha ideato per la Fabbrica del Mondo: Rai Radio 2 aderisce con una puntata speciale del programma Caterpillar, in onda lunedì 9 ottobre alle 21 su Radio 2, in occasione del 60° anniversario del disastro del Vajont.

Da Copenaghen agli Emirati Arabi
Nello speciale, alle voci dei conduttori Massimo Cirri e Sara Zambotti dagli studi Rai di Milano, si aggiungono quelle di Teresa Mannino dagli studi Rai di Palermo, di Paolo Maggioni dal Piccolo di Milano e di Marco Paolini al teatro Brancaccio di Roma. Inoltre – solo per fare alcuni esemp i- interverranno scuole, parrocchie, case di riposo, gli studenti detenuti della sede carceraria di Turi, ma anche lettrici di condominio, amici in birreria, scuole, amiche del burraco, interi studi legali, squadre di basket, circoli fotografici, volontari in biblioteca, piazze di quartiere, moltissime famiglie che cercano uno strumento per informare i propri figli di quanto accadde 60 anni fa. Da Copenaghen agli Emirati Arabi passando per il Nord Carolina e Parigi.

Le migliaia di adesioni
Rai Radio 2, infatti, con il programma Caterpillar e la campagna “M’illumino di meno” ha amplificato l’invito chiamando i propri ascoltatori alla partecipazione e la risposta è stata sorprendente con migliaia di adesioni.
A tutte le persone che lo hanno richiesto Rai Radio2 ha inviato il testo e la lettera scritta da Paolini per le ascoltatrici e gli ascoltatori di Caterpillar:
“Il racconto del Vajont trasformato in coro per essere letto a voce alta da cinque o più persone, non come un esercizio di memoria, ma come monito del tempo presente, monito a non subire il destino di vittime, a scegliere di non affrontare la crisi climatica in solitudine, a ribellarsi al negazionismo. Il racconto del Vajont sia uno stimolo a cambiare passo, ce lo chiedono le nuove generazioni.”

Un’operazione di “cucitura” narrativa di tante voci della società civile che si interrogano sulle fragilità del mondo nella crisi climatica: alle 22.39, l’ora in cui la montagna franò nella diga, andrà in onda in radio il suono della campana di Longarone.

Lo speciale di Focus
C’è poi lo speciale Vajont, 9 Ottobre 1963 – la Montagna, la Diga, gli Uomini che Focus (la rete tematica Mediaset dedicata alla divulgazione) propone lunedì 9 ottobre, in prima serata, indaga sulla tragedia esplorandone i fatti, le cause, l’impatto, gli errori, il dolore, lo scandalo, le ferite nel territorio e nei superstiti, la diga ieri e oggi.

Il programma di Focus, a cura del divulgatore scientifico Luigi Bignami, con la regia di Gianluca Gulluni e Manuele Mandolesi, cerca sul territorio le cause del disastro: e, per la prima volta, mostra in tv l’interno della diga e delle gallerie di servizio che servivano alla manutenzione e al controllo dell’invaso. I media, all’epoca, definiscono l’evento un ‘incidente’, una catastrofe naturale, crudele ma imprevedibile.

L’inascoltata giornalista Tina Merlin
Nel tempo, grazie al formidabile lavoro d’inchiesta della giornalista Tina Merlin, sull’Unità, emergono elementi di gravissima incuria, corruzione e frode, ai danni della popolazione locale, di fatto esposta irresponsabilmente a un rischio tutt’altro che imprevedibile e imprevisto.

Nello speciale, tracciato con foto dell’epoca, immagini d’archivio e riprese delle stesse zone oggi, propone le voci di alcuni testimoni diretti della tragedia; un ricordo dell’accaduto di Mauro Corona, gli interventi di ingegneri e geologi (Piero Gianolla, Università di Ferrara; Giovanni Crosta, Università Milano Bicocca; Emiliano Oddone, Dolomiti Project), e visite, fra i luoghi, al Cimitero Monumentale delle Vittime del Vajont, dove riposano 1.464 vittime (le salme mancanti non sono mai state rinvenute).

“Il 9 ottobre 1963, 2000 persone entravano nel nulla per ambizione e cinismo altrui e sete di denaro”, sottolinea Mauro Corona. “La cosa terribile è che si capiva le cose non andavano bene, alla fine si apriva un metro (di territorio) al giorno. Sarebbe stato sensato evacuare i paesi intorno, come Longarone, Castellavazzo, Codissago, Erto. La storia del Vajont è chiusa in questa formula. Perché non lo fecero?”.

I tanti punti oscuri

La storia “della catastrofe del Vajont iniziata circa 23 anni prima, termina con quattro minuti di apocalisse”, spiega Bignami. Al Politecnico di Milano, attraverso software e modelli di calcolo si è ricostruito quanto accaduto quella notte nel Vajont: “Il nostro obiettivo è cercare di capire cosa sia successo veramente anche perché ci sono ancora dei punti oscuri”, dice il professor Massimiliano Cremonesi del Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale, “ma ci interessa anche cercare di proporre una soluzione, un metodo e un approccio da utilizzare anche in situazioni analoghe con scopo predittivo, per evitare che tragedie come questa succedano nuovamente”.

Tra le mete di Bignami anche il Museo Longarone Vajont Attimi di storia, con un percorso storico tra la cittadina, la tragedia, il lutto, il dolore, i soccorsi, il processo, la ricostruzione, fino all’oggi: “Il museo non vuole essere legato solo ai fatti del 1963 ma vuole ricordare e far ricordare a tutti com’era questa cittadina prima degli eventi”, spiega la coordinatrice Sonia Bortoluzzi. “Siamo qui per fare rumore, per non cadere nell’oblio”.

Le reazioni

“Oggi ricordiamo il tragico disastro del Vajont, una ferita profonda nella nostra storia. Quasi 2 mila vittime, interi paesi spazzati via, una tragedia che poteva e doveva essere evitata. A distanza di 60 anni, il ricordo del Vajont resta un monito per tutti noi”. A dirlo è Giorgia Meloni, che aggiunge: “Non dobbiamo dimenticare quanto è costata l’irresponsabilità umana in quella terribile notte del 9 ottobre 1963 a una comunità che era pienamente consapevole dei rischi, ma che rimase inascoltata”.

“In memoria di quella terribile tragedia, una ferita ancora impressa all’Italia tutta – ricorda ancora il presidente del Consiglio – il nostro impegno affinchè eventi simili non si ripetano mai più nella nostra nazione”. “Nel ricordo delle vittime del Vajont continueremo a lavorare per un’Italia più sicura”, conclude. “E’ doveroso impegnarsi per la

Sicurezza e la prevenzione dei disastri e contro il dissesto idrogeologico del nostro territorio affinché tali tragedie non si ripetano più in futuro. Ai familiari delle tante, troppe vittime di quella notte, rinnovo la mia sincera vicinanza”. Così il presidente del senato Ignazio La Russa.

INTERVISTA AL REGISTA SULLA TRAGEDIA DELLA DIGA

di Anna Bandettini
Il regista Marco Paolini:

“Il Vajont viene oscurato in tv. Anche dopo 60 anni fa paura al potere”

Nessuno trasmetterà il ricordo del disastro che provocò 1.910 morti:

“Altre catastrofi sono probabili e imminenti”

ASSISI — «Dopo sessant’anni il Vajont in Italia fa di nuovo paura al potere. Nessuna tv, a partire dalla Rai, ha accettato di trasmettere il riscritto racconto della tragedia, in occasione dell’anniversario del prossimo 9 ottobre. Nessuno sponsor, tantomeno istituzionale, ha accettato di investire per collegare in rete gli oltre cento teatri del Paese che quella sera metteranno in scena il peggior disastro industriale della nostra storia.

Marco Paolini:

“Duemila voci per ricordare la tragedia del Vajont e riflettere sulle sorti del pianeta”

Il 9 ottobre l’azione di teatro civile corale con seicento messe in scena in contemporanea. E alle 22.39, l’ora della frana, tutti gli spettacoli si fermeranno per un minuto di silenzio

Centotrentacinque sono i teatri coinvolti e vanno da Potenza a Singapore, da Napoli al Canada.

Duemila gli artisti e le persone in campo, di cui 223 tra famiglie, gruppi di amici, 94 scuole, 50 gruppi di teatro amatoriale.
Il 9 ottobre saranno i protagonisti della più grande azione di teatro civile corale mai organizzata in Italia con 600 messe in scena in contemporanea per ricordare, nel giorno in cui avvenne nel 1963, una delle più grandi catastrofi della nostra storia, una frana che cadde dal monte Toc nell’invaso della diga del Vajont, l’acqua tracimò e seppellì tre paesi tra cui Longarone e quasi duemila persone.

Il mega spettacolo diffuso si intitola VajontS 23, ed è un’ ulteriore impresa del teatro civile di Marco Paolini, l’attore che con la sua comunicativa diretta segnò già nel 1993 una pietra miliare nella narrazione pubblica con Il racconto del Vajont dove ricostruiva una a una le responsabilità politiche e economiche di quel disastro; quello spettacolo colpì e commosse l’Italia e nel 97 divenne perfino un cult televisivo trasmesso in diretta dai luoghi della tragedia.

Ora con VajontS 23 Paolini moltiplica le voci e i racconti, “perché il Vajont non è una catastrofe che riguarda solo una valle”, dice. Con una squadra di collaboratori tenaci, la Fabbrica del Mondo, Michela Signori, la collaborazione di Marco Martinelli, Michele dell’Utri, il Piccolo Teatro di Milano e tantissime istituzioni e Comuni, e un anno di lavoro, ha messo sù una immensa rete, “artisti, parrocchie, gruppi di lettura, insegnanti, comitati di quartiere, persino nella corsia di un reparto oncologico dove il 9 rifaranno pezzi del mio Racconto o quello che vorranno su temi come dissesto idrogeologico, acqua, clima”, spiega Paolini che quella sera sarà a Milano, al Piccolo Strehler con 200 cittadini tra cui il sindaco Giuseppe Sala, la scrittrice Benedetta Tobagi e venti artisti da Marta Cuscunà, Marco D’Agostin a Federica Fracassi, Lino Guanciale, Arianna Scommegna. In contemporanea, per esempio e tra gli altri, sempre a Milano, al Carcano Lella Costa introduce una lezione del geologo Mario Tozzi, al Verdi di Padova parlerà Telmo Pievani, allo Stabile di Torino Gabriele Vacis, che del primo Racconto del Vajont fu coautore, al Brancaccio di Roma ci saranno da Piero Sermonti a Neri Marcorè, Luca Zingaretti, Valerio Aprea, Paolo Calabresi. “E alle 22.39, l’ora della frana, tutti gli spettacoli si fermeranno per un minuto di silenzio” anticipa Paolini, infaticabile, visto che il 16 rifarà Il racconto del Vajont integrale al Piccolo di Milano già esaurito, dove l’11 debutta con il nuovo lavoro teatrale prodotto dallo Stabile del Veneto, Boomers, un quasi-musical su cinquant’anni di storia italiana affiancato da Patrizia Laquidara e una band.

Paolini, la sfida più alta è proprio VajontS 23.
“Duemila voci che dalla tragedia di Longarone rifletteranno sulle sorti del pianeta, credo sia una cosa mai fatta. Lo facciamo col teatro perché lì si è meno soli, e se le tragedie, le paure le racconti tu, ti restano dentro. Peccato che non potremmo collegare in diretta tutte le messe in scena, ma non abbiamo avuto finanziamenti. Forse spaventa ancora alzare il velo sul Vajont che le Nazioni Unite mettono come quarto disastro più grave mai provocato dall’uomo”

Cosa vuol dire alzare oggi quel velo?
“Trent’anni fa ciò che mi muoveva era il bisogno di dare un risarcimento all’oblio. Oggi Il racconto lo ascolta chi ha 20, 30 anni, e più che alle colpe dei monopoli elettrici o della Democrazia cristiana, pensa ai rischi connessi alla fragilità del territorio, alle nostre case. VajontS 23 raccoglie anche quell’ansia da futuro dei giovani che non si cura con gli psicofarmaci, ma col cambiamento dei comportamenti, è un dirci ‘muoviamoci’, tutti assieme”

Giovani e vecchi, padri e figli, è anche il tema del suo nuovo lavoro, di Boomers. Perchè le sta così a cuore?

“Sono partito da quella che i sociologi chiamano rottura del codice tra le generazioni. Noi boomers, sessanta-settantenni, siamo i Flinstone, delle nostre esperienze i nuovi nati poco ne sanno, il Vietnam, Sessantotto… Boomers fa i conti con i frammenti di memorie condivise nell’arco di cinquant’anni d’Italia ma affrontate in modo un po’ particolare”

Cioè?
“Siamo in un bar, il bar di Jole che sta sotto un cavalcavia autostradale, metafora del progresso che corre veloce sopra le nostre teste. In scena ho un figlio che per una start up fa giochi per anziani e me ne fa provare uno, Boomers dove il mio Jurassic Park di ricordi entra come in un tritacarne, ed tutto è più violento”.

Un apologo amaro?
“No, è un gioco, con una drammaturgia di musiche e canzoni, e entra senza cinismo nel tema della trasmissione dell’esperienza, di chi tramanda qualcosa a qualcuno che la raccoglie. Ma come pretenderlo se abbiamo rinunciato a tirar su i figli e l’abbiamo lasciato fare alla televisione, a internet e quando non funziona diamo colpa alla scuola? Ovvio che il codice tra generazioni è rotto, e cambiare il senso comune non è facile. Ma Greta e gli altri ci stanno mandando un segnale forte, e davanti alla crisi climatica, alla redistribuzione della ricchezza, noi boomers non possiamo restare lì, attaccati al nostro mondo”.

Vajont, la visita del presidente della Repubblica Mattarella nei luoghi della strage

Sessant’anni fa il disastro in cui morirono duemila persone: le tappe del presidente della Repubblica nelle località colpite il 9 ottobre 1963

Oggi, 9 ottobre, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è nei luoghi del disastro del Vajont, sul versante veneto e su quello friulano, dove 60 anni fa ci fu la tragedia che causò la morte di duemila persone. Gli abitanti di Longarone e della valle del Piave ebbero solo quattro minuti per tentare di mettersi in salvo, la notte del 9 ottobre 1963, prima che l’onda generata dalla frana del Toc nell’invaso del Vajont superasse la diga, radendo al suolo il paese. Erto, Casso e Castelavazzo sono diventati paesi fantasma, con case e finestre sbarrate. Longarone è stata rifatta a forza di cemento armato.

Le vittime
I sopravvissuti sono ormai poche decine. «Per noi fu come la fine del mondo. E un evento del genere non si può descrivere. Solo chi c’era può capire» dice oggi Italo Filippin, 79 anni, già sindaco di Erto e Casso (Pordenone), da molti anni diventato il più apprezzato «informatore della memoria» per le quasi 100 mila persone che ogni anno vengono a visitare la diga del Vajont, gestita dal Parco naturale delle Dolomiti friulane. «Solo all’alba capimmo cosa era accaduto». Il bilancio ufficiale fu di 1.910 persone morte, tra cui 487 di età inferiore ai 15 anni.

La commemorazione al cimitero di Fortogna
Il programma della visita del presidente Mattarella prevede due tappe: una, alle 11:00, è al cimitero monumentale di Fortogna, dove sono sepolte le 1910 vittime della tragedia. Il presidente della Repubblica è stato accolto da un coro di 487 bambini, accompagnati da Paolo Fresu e dal quartetto d’archi Alborada, hanno intonato il canto friulano «Stelutis alpinis». Ognuno dei bambini portava un cartello con il nome dei 487 giovani minori di 15 anni morti nel disastro del 1963. Nel cimitero il presidente Mattarella ha lasciato una corona in ricordo delle vittime. Per ricordarle dalle campane di tutte le chiese sono partiti 1910 rintocchi, uno per ogni vita perduta quella notte.
All’evento hanno preso parte numerose rappresentanze di reduci, soccorritori, alpini e bambini delle scolaresche.

La seconda tappa alla diga

A partire dalle 12, invece, Mattarella si sposterà alla seconda tappa della sua visita, in un altro luogo-simbolo: il piazzale davanti alla diga del Vajont, nel comune di Erto e Casso. Sarà qui che verranno pronunciati i discorsi commemorativi. Saranno presenti il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, il presidente del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, i sindaci di Longarone, Erto e Casso, Vajont e Ponte nelle Alpi.

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