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OMAGGIO A MICHELE PARRELLA

Il ricordo di Gaetano Fierro

In Basilicata, come nel Paese, dopo la seconda guerra mondiale, si respirava un clima di maggior fiducia e speranza. Erano gli anni del Piano Marshall. Il Mezzogiorno d’Italia riceveva aiuti economici concreti. La ricostruzione materiale e morale del Paese incominciava a dare i suoi benefici effetti. In politica, gli scontri dialettici tra il Partito d’Azione, il Pci e l’emergente Democrazia Cristiana alimentavano le tensioni e l’attenzione dell’intera nazione sui temi della “questione meridionale” La Basilicata diventava “laboratorio politico”. Ernesto De Martino e Carlo Levi offrivano, coi loro contributi di studio, utile materiale: dall’approfondimento antropologico della realtà lucana si passava ai primi esperimenti di sociologia empirica. Per questo motivo venivano in Basilicata studiosi ed antropologi nordamericani, come Peck e Banfield ed altri ancora. Cominciavano in terra lucana gli “studi di comunità”. C’era forte passione civile e gran fervore culturale. In quel contesto socio-politico coloro che sentivano sulla loro pelle il peso dei quotidiani avvenimenti non rimanevano passivi, diventavano protagonisti della vita civile. Per cronaca, dopo il conseguimento della maturità classica, Parrella, più per desiderio del padre che, a tal uopo, si consigliò con il professore Gavioli di Potenza, si iscrisse, a Siena, alla Facoltà di Medicina. A distanza di qualche anno, ne aveva appena diciannove, dopo i primi incerti risultati, lasciò la Toscana. “In uno dei suoi frequenti viaggi a Roma, dopo la morte della madre seguita dalla tragica fine del padre, Parrella conobbe Carlo Muscetta; entrò in contatto a Firenze con il poeta Luigi Fiorentini; ancora nell’ambiente romano si fece apprezzare da quanti in quel periodo tenevano il campo delle lettere e del giornalismo. Il suo incontro più importante resta, però, quello con Leonardo Sinisgalli e il fratello Vincenzo, il primo direttore di “Civiltà delle macchine”, il secondo redattore della rivista. E’ proprio, infatti, collaborando alla rivista con brillanti servizi giornalisti che Parrella ebbe modo di entrare negli ambienti intellettuali della capitale e di farsi notare per le sue qualità di scrittore oltre che di poeta. Iscritto al PCI, nel ’52 Parrella, insieme al giornalista Giuseppe Passalacqua, pubblicò “Tre domande a Togliatti”, in cui, a seguito del la rottura tra Tito e Stalin avvenuta nel ’48, chiese al segretario del più grande partito operaio d’Europa l’allentamento dei legami di ferro con l’Unione Sovietica e la scelta d’una via nazionale al socialismo. La realizzazione di questa politica che salvaguarda le istituzioni democratiche passava attraverso il consolidamento della democrazia interna dei singoli paesi, attraverso la pace e la cooperazione tra i popoli. La positività che emergeva dal discorso di Parrella della necessità di avviare un nuova politica aperta ai diversi contributi delle forze politiche è un aspetto che non può essere trascura to o rinviato, considerata l’ostile azione promossa nel Paese dal grigio apparato del Partito Comunista Italiano. Il pluralismo, cui faceva riferimento Parrella, non prevedeva una strategia a medio respiro tra il proletariato e i ceti medi per determinare l’egemonia della classe operaia, ma si riferiva alla nascita di un diverso socialismo in cui si affermano le libertà per sonali e collettive, i principi della laicità dello stato, la pluralità dei partiti in una libera dialettica, l’autonomia del sindacato, le libertà di espressione, della cultura, dell’arte. Un pluralismo inteso come conquista sociale dell’individuo nei suoi rapporti interpersonali. L’iniziativa aborti, per il clima di pesante conformismo vigente nel partito, con pesanti ricadute sulla carriera intellettuale dei due autori delle domande, certo dimostratisi non organici alle scelte culturali e politiche dei comunisti italiani, e quindi degli eretici”.” Nella città capitolina, dove di tanto in tanto soggiornava, i mezzi economici scarseggiavano e, obbligato dalle necessità, parti per Torino, dove un contratto di lavoro lo legò alla Casa Editrice Zanichelli. Durante la sua permanenza in Piemonte, Parrella ebbe un approccio lavorativo anche con l’Olivetti di Ivrea. Gli avevano commissionato, per “Comunità”, un’inchiesta socio-economica sulla Basilicata. Rientrato a Potenza, Parrella venne assorbito dallo scandire lento… del tempo che segna la vita dell’uomo da oltre diecimila anni. La Lucania è un luogo abitato dagli dei, poveri o ricchi che sia no, emotivamente carichi di acuta personalità, anche se nascosta o silenziosa. Sono individui del sole, figure eteree, nella religiosa interpretazione, della commedia umana, da sempre. Alcuni mesi più tardi, si stabilì definitivamente a Roma. In quei periodi, pur movimentati, si dedicò con impegno e metodo alla poesia. Ci troviamo di fronte ad un repertorio poetico scandito nei seguenti tempi: “Poesia e pietra in Lucania” (1954), “Paisano” (1958), “Immagine di una fabbrica” (1959). I suoi canti, dai toni tipici di litanie, sono per lo più rivolti alla sua terra, la Lucania, senza sbocchi ed evasioni: Lucania teatro perso le marionette si aggrappano a noi, non ce la facciamo più a cucire gli arlecchini appesi alle monete. Solo i fanciulli restano a te i tuoi figli carcerati e persi, madre mia coi capezzoli rotti la tua voce è dilaniata e persa. e Ti hanno avvolta in un manto nero ma le tue piaghe non si possono nascondere. Non ci sono veli né bende per coprire i tuoi fianchi di ginestra e il grembo scavato dalle frane. Nel 1955, la pubblicazione de’ “Il tuo paese e il mio, Thomas”, un omaggio poetico che dedicò a Dylan Thomas, poeta gallese, che recitava così: Io sono un poeta da villaggio non so i tuoi difficili voli. Da ragazzi ci lessero dieci regole ad alta voce per farci arrossire. Noi abbiamo lo so poche cose uno, due, tre sentimenti la fede, la speranza, la carità. E laggiù, più a sud non come il tuo Galles, non come a Swansea, ci sono balconi e chitarre e ringhiere. e nella piazza un vero teatro si prova la scena la battuta la faccia lasciò trasparire, per il fervore e per il senso di riflessione tutto meridiano, la grande possibilità di affermazione che avrebbe potuto avere se avesse osato sconfinare nelle problematiche della cultura europea. “Quando rispettivamente apparvero le due prime raccolte di versi del gallese Dylan Thomas (1914- 1953): Eighteen Poems e Twenty-five Poems, si salutò in lui l’iniziatore di un genere nuovo di poesia, che collocava nella moda di ieri la maniera di Eliot e del la sua Scuola. Thomas era uno di quei rari artisti che trattano la materia verbale non come un tesoro a cui attingere, ma come un magma, una sostanza malleabile e obbediente alla volontà, alla violenza quasi carnale dell’artefice. Certe espressioni usate dal nostro D’Annunzio per descrivere il suo “amor sensuale della parola” (come ad es.: “La trascrizione materiale di certe sillabe talvolta opera così violentemente sul cervello che ne trae getti subitanei d’immagini e di pensieri”) potrebbero ancor più appropriatamente descrivere quel che avveniva nel Thomas. Il quale del resto così scrisse della propria ispirazione in una lettera a Henry Treece: Una mia poesia abbisogna d’una falange d’immagini, poichè il suo centro è una falange d’immagini. Io creo un’immagine – sebbene “creo” non sia la parola giusta; io lascio, forse, che un’immagine “si crei” in me emozionalmente, e poi vi applico quanto ho in me di poteri intellettuali e critici – lascio che generi un’altra immagine. lascio che questa nuova immagine contraddica la prima, faccio, della terza immagine generata dalle altre due insieme, una quarta immagine contraddittoria, e le lascio tutte cozzare insieme nel l’ambito dei limiti formali che mi sono imposto. Ogni immagine contiene in sé il germe della sua distruzione, e il metodo dialettico, come lo intendo, è un costante ergersi e crollare delle immagini che si sprigionano dal germe centrale, che è esso stesso a un tempo distruttivo e costruttivo. Parole che fanno pensare a quelle con cui l’abate Vogler, nella poesia di Robert Browning, descriveva le proprie composizioni musicali, e invero questo pare il linguaggio della musica più che della poesia: se a “immagine” sostituiamo la parola “tema”, abbiamo una definizione assai calzante d’una composizione musicale. Poesie, quindi, che la cospicua assenza d’un legame logico rende particolarmente ardue a tradurre; poesie spesso ineguali che, tuttavia, quando riescono perfette, comunicano, come poche altre, un acuto senso della vita e della morte (“è un poeta molto limitato”, ha scritto qualcuno, “non sa scrivere che della vita e della morte”). E’ un genere di poesia che, in forme metriche rigorose, ha un ritmo delirante, febbrile, a cui pare accordarsi la tragica fine del poeta (morto di delirium tremens). L’incantamento verbale, fonico, pro cede a spirale, senza trovare un punto di riposo, e vien fatto di riaccostare questo genere di poesia, oltre che a certi esempi vicini (la scrittura automatica), alle maggiori liriche di Crashaw e alle orge di parole e d’immagini di Swinburne. Gli stessi simboli ricorrenti della nascita e delle morte sembrano riflettere i processi organici della natura, che è perenne creazione e distruzione”. A differenza di Thomas, Parrella non distrugge le immagini, non mette le une contro le altre, prima le vive e poi le trasmette L’autenticità poetica significa per lui la piena corrispondenza che la parola ha con il sentimento, la coerente trasposizione di ciò che sente come sofferenza con ciò che esprime. Il potenziale di energie che era in lui, che era sul punto di scoppiare, per fatalità o per autonoma scelta, lo lasciò al libero arbitrio di un modo di vivere, capriccioso e falsamente sognatore, che a poco a poco prosciugò la sua vena creativa. Viveva solo, come un artista della Bohème, di pucciniana memoria. All’alba, quando le luci delle strade cominciavano a spegnersi, poggiato sul suo fedele bastone, ritrovava la strada di casa. “E il vagabondare di Michele è, fin dalla notte dei tempi, una caratteristica della fabulazione, affine al “vagare” di tanti altri poe ti, rimanendo fuori dalle logiche contingenti”. In questo atteggia mento, aggiunge Lucio Tufano nel suo articolo “E il poeta nacque sconfitto”, sicuramente “vi è una strategia finale propria del poeta, dopo i mille tentativi di rivolta, dopo aver issato i folgoranti stendardi del lirismo ideologico, dopo aver sostato nelle piazze in fermento, dopo aver pianto e invitato a piangere sull’Unità per la morte del grande oppositore, Palmiro Togliatti, dopo gli inni a Satana, quella dell’ostentato compiacimento della sconfitta, umile oggetto travolto dal torrente dell’arroganza, nonostante la precisa coscienza di essere di più. Una strategia dell’autodistruzione come estremo tentativo di libertà, una teoria della “minima resistenza al potere”, che appare alla “lucidità” l’apparente “stupidità” del proprio comportamento, alla volontà di potenza e alla organizzazione generale del potere il balbettio sommerso della impotenza dichiarata, alla macchinosità, alle sofisticate linee, alle stringate logiche, alle conclusive e poco comprensibili mediazioni, lottizzazioni… il semplice chiacchierare. E Michele – negli ultimi tempi – non fa che chiacchierare, chiacchiera per ore, disperato ed ironico, comico nel senso kafkiano, ma sempre altamente poetico”.

Di Gaetano Fierro

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