UNA VITA TRA STUDIO E SCRITTURA: IL RITRATTO DI MELILLO
L’intervista all’antropologo lucano e location manager che si sente in ogni luogo come a casa. «Potenza accoglie anche se sembra respingere, ma accoglie chi non disprezza»
Ci siamo conosciuti alla fine del vecchio millennio, a Melfi durante una manifestazione dove entrambi accompagnavamo i nostri maestri. Da allora ci siamo sempre stimati e rispettati, strade simili ma diverse, interessi all’apparenza uguali, insomma una storica e un antropologo. Un giorno mi portò una cassetta di mandarini coltivati da lui ma io non ero a casa e me li lasciò sul muretto della mia abitazione. Era nato il suo bellissimo blog. Tra cielo e mandarini.
Giuseppe Melillo, di bell’aspetto e di grande fascino, ci racconti la sua formazione intellettuale, le sue interessanti frequentazioni e letture.
«Una formazione informale, nata dal vivere in un paese in una famiglia larga fatta di parole, mezze parole, frasi e segni apparentemente senza senso ma di significato profondo. Sono cresciuto tra il dialetto e il saper fare e sapersi adattare. Oggi diremmo saperi informali. Poi sono arrivati quelli formali, dell’Università. Orgoglioso e grato di aver frequentato l’Unibas a Potenza. Una formazione di livello importante con professori di spessore ed esigenti. Allo stesso tempo ho scoperto luoghi e storie, compagni e compagne di studio provenienti da paesi con nomi evocativi, sconosciuti fino ad allora per me, che sono cresciuto a Bernal- da di- viso tra la costa jonica e la valle del Basento. Un ulteriore livello formativo lo devo alla città di Potenza, dove è possibile fare incontri ed esperienze diverse tra lo- ro. Una città che consente un confronto continuo. Qui mi laureo con una te- si in antropologia culturale e continuo la collaborazione con l’Unibas con diverse modalità. Mater e corsi vari, spostando l’asse su progettazione e sviluppo. Si succedono collaborazioni con enti e istituti di ricerca, agenzie di sviluppo locale e altro ancora. Diciamo che non sono mai stato a lungo in uno stesso posto, in ogni luogo ho imparato qualcosa che poi ho portato con me nel successivo. Questo mi ha permesso di continuare a fare nuovi incontri e a formarmi come persona e professionista. Saperi e conoscenze su tutta la Basilicata, suggerimenti di studi e letture, analisi e osservazione: tutto ciò che consente l’incontro con il nuovo, il di- verso, lo straniero inteso in senso ampio, l’inatteso. Come direbbe uno dei miei maestri che ho avuto la fortuna di incontrare, ho sviluppato la capacità di trasformare la pratica e l’esperienza in pensiero e analisi. Ora occupo un ruolo dirigenziale in un P.A. e provo ad azionare procedimenti in cui la tecnica o il tecnicismo siano al servizio del pensiero, della soluzione e dell’avanzamento culturale della collettività, con pragmatismo e mediazione continua. Mi guardo sempre, con attenzione, in- torno per capire se c’è una nuova sfida»
Lei abita a Potenza da trent’anni, si sente potentino? Cosa pensa di noi potentini, siamo accoglienti? Io credo che il pregio più evidente dei potentini sia l’essere accoglienti e far sentire l’ospite a casa propria. È un bel pregio, in altri luoghi i forestieri resta- no stranieri per sempre
«È una domanda complessa e insidiosa, contiene una provocazione che accolgo. Potenza è una città che ha la potenzialità per andare oltre l’accoglienza, già sviluppata e comunque non scontata. Ha un ruolo nevralgico per l’intera regione, deve garantire questo ruolo e non può e non deve essere percepita con sospetto dagli altri territori. Anda- re oltre l’accoglienza, implica aumentare la capacità di andare incontro alle criticità e alle diverse caratteristiche che contraddistinguono l’intera regione. Potenza deve assumere con forza il ruolo di guida e di indirizzo. In fisica si direbbe che abbia una forza centripeta, che tende al centro. Potrebbe potenziare la forza centrifuga, che tende ad allontanare dal centro e ad an- dare verso l’esterno: diventare locomotrice. Io vivo Potenza da anni, dal secolo scorso, da studente dell’Unibas mi sono trasferito a Potenza. Ave- vo il sogno come ogni ragazzo di andare lontano e invece mi sono ritrovato in una città di montagna, dal clima ostile e dalla viabilità e urbanistica complicata. Mi sembrava una specie di confino. Il tempo di capire e lo spirito di adattamento mi ha fatto dimenticare le difficoltà e mostrato le opportunità di questa città. Da allora ho sempre avuto una casa, una stanza, un luogo e mai mi sono sentito un ospite, ed è stata una fortuna. Qui ho una bambina ormai adolescente. Sono integrato nella realtà e nei “fattarelli” cittadini. Da Potenza ho potuto girare tutti i paesi lucani e raccogliere storie e studiare e osservare le dinamiche che accadevano e accado- no. Per questo non mi sento solo potentino, mi sento bernaldese, metapontino, materano, del Vulture, della Val d’Agri o del Melandro, del Pollino. Mi sento a casa in ogni paese o contrada. Mi piace definirmi lucano sopra ogni cosa. Potenza accoglie an- che se sembra respingere, ma accoglie chi non di- sprezza, chi si pone in posizione neutra e va oltre l’estetica. Potenza bisogna abitarla e non attraversarla. Si dona a chi si dona. Potenza è pur sempre una città di provincia con tutti i limiti e pregi di una città di provincia. Dipende da cosa si guarda e cosa si cerca. La posizione offre di raggiungere città importanti con facilità e tempi contenuti. Spesso noto la trappola del confronto. Si paragona Potenza a città come Roma, Napoli, Milano. È un confronto che non regge, bisognerebbe paragonare una città come Potenza ad altre simili anche del nord e centro Italia, e penso che cadrebbero molti pregiudizi o luoghi comuni. Dei potentini penso bene, non sono ingabbiati nel senso di identità che pur avvertono, in momenti di ritrovo collettivo. Una identità che spesso è rifugio, una comfort zone, di chi non ha al- tri argomenti forti e non ha consapevolezza del sé e della collettività di cui fa parte. Il potentino molto spesso è figlio, nipote di qualcuno che è arrivato da altri paesi, da altre regioni, e questo ha permesso di non incrostare i rapporti e le dinamiche sociali ma di costruirne nuovi e generazionali. Lei afferma nella domanda “stranieri per sempre”, beh, io credo che nessuno possa sentirsi straniero se sta bene con sé stesso e alimenta passioni e interessi. È solo una questione di tempo e di rapporti, ad un certo punto la città diventa solo una cornice e ci si focalizza sulla composizione del quadro: gli abitanti, le relazioni la qualità dei servizi, le offerte culturali, sportive, le passioni».
Io vivo in un paesino dove sono forestiera per sempre ma è un ‘altra storia…Conosco dei Lucani che non conoscono la Basilicata e molti non hanno visitato Potenza o visitato in parte ma la giudicano brutta anche se brutti non sono il centro storico, i casali storici ora diventati rioni, da forestiero ben accolto – e antropologo – come giudica questo fenomeno e di cosa Potenza ha bisogno per migliorare?
«La dico così, con una battuta: la Basilicata ha 131 capoluoghi e anche qualcuno in più. Tornando a Potenza, prima di dire come migliorare vorrei fare un passaggio sulla percezione interna, prima che esterna; come dicevo prima Potenza è una città provinciale, con tutti i limiti di una città provinciale italiana. Noto due aspetti primari: uno la si disprezza paragonandola ai grandi centri italiani e spesso europei oppure a città di mare, come contrappunto invece c’è l’idolatria verso la città e la sua storia o gli accadimenti veri o presunti. Potenza è sempre stata figlia dei tempi, mai ferma o fuori dalla storia, e la storia ha segni anche nell’urbanistica e architettura. Un centro storico molto bello e che appartiene agli abitanti prima che ai turisti e dove gli abitanti non sono marginalizzati come accade in città turistiche che subiscono il fenomeno della gentrificazione. Ci sono i quartieri popolari, quelli di epoca fascista, i palazzi nobiliari di diversi secoli, un patrimonio ecclesiastico di rilievo, ville e alberi monumentali, tanti spazi verdi. I dintorni sono una scoperta continua. Poi c’è stato il tempo del cemento e della speculazione edilizia che ha massacrato la storia e violentato la città, mascherandosi dietro la modernità e la fuga da un recente passato, spesso non accettato e di cui vergognarsi. Ha molti aspetti degni di vista e oggetto di scoperta. Ma tutto questo non basta per farla diventare una città a principale destinazione turistica. Potrebbe entrare in un circuito con una programmazione e analisi e la messa in campo di eventi che richiamano turisti interessati e non “alla giornata”. Eventi che siano l’apripista per visitare i luoghi di interesse. Io penso anche al museo nazionale e alle sue mostre, al teatro Stabile, all’auditorium e alle proposte e cartelloni soprattutto invernali. Diventare una città che accoglie, che fa stare bene chi ci passa e sosta per lavoro, per studio, per formazione. Essere accogliente con chi ci abita e vive. Deve essere una città di produzione di servizi elevati e formazione di pensiero, recuperare la responsabilità del suo ruolo (anche e soprattutto di città universitaria) e non cedere al ricatto dei numeri e alle sirene del turismo fai da te. Perderebbe la sua essenza. Si deve dare come obiettivo quello di città del buon vivere».
Lei è un antropologo, scrive su importanti testate giornalistiche in qualità di opinionista ma ha scritto anche saggi, racconti, libri…come definirebbe la sua produzione?
«“Caminante, no hay camino, se ha ce camino al andar.” (Viaggiatore, non c’è cammino, si fa il cammino camminando.) Per rispondere prendo in prestito i versi di una poesia di Antonio Machado, che ho apprezzato nel mio periodo spagnolo, quando lavoravo nel dipartimento del turismo andaluso. La definirei un cammino. Una continua esplorazione e soprattutto un confronto con me stesso e con gli altri. Mi piace cercare e raccogliere, mettere l’orecchio a terra come i pellirossa, storie e pensieri che altrimenti si perderebbero. Le raccolgo e provo a scriverle, a fissarle affinché vicende, pensieri anche ragionamenti non vadano nell’oblio ma si trasformino in memoria ed esperienza. Nei miei giri larghi per la Basilicata ho in mente sempre una frase letta “Nella via dei canti” di Bruce Chatwin: “La terra deve prima esistere come concetto mentale. Poi la si deve cantare. Solo allora si può dire che esiste.” Scrivere è una assunzione di responsabilità. Le parole quando sono scritte sono una scelta precisa di campo. Uno si definisce dalle parole che usa e nelle parole si trovano i pensieri».
Forse lo sanno in pochi ma Lei è anche un appassionato di cinema e si è occupato e si occupa di cercare siti lucani per produzioni cinematografiche. Io l’ho vista anche recitare in un film girato in Basilicata. Ci racconti qualche episodio particolare di questa sua attività non usuale e come convince le produzioni cinematografiche a scegliere un luogo…
«Questa è un’altra vita ancora, ridefinirsi e rimodellarsi su situazioni nuove senza perdere i propri punti valoriali che in questo mondo possono essere smarriti con facilità. Il cinema è una finzione, racconta sogni ed è la cosa più vicina al sogno che esista. Quando si spengono le luci in una sala è come prepararsi al sogno. È nel dietro le quinte che il sogno scompare, l’aspetto finanziario e commerciale prevale. Anche i rapporti umani sono finzione, un collega è visto come un avversario da delimitare. Di quel mondo conservo con cura pochi amici. Il lavoro di location manager non si impara a scuola, anche se mi è capitato di fare lezioni dedicate in alcuni master. É una figura artigianale, si va a bottega e c’è un “mastro” che ti insegna senza spiegarti, io ho avuto la fortuna di avere come “mastro” uno dei migliori location manager italiani. Poi si aggiunge del proprio che fa la differenza. Questa figura non deve solo individuare e cercare posti, ma confrontarsi con gli sceneggiatori, il regista, la scenografia, la logistica, fare i conti con il budget, rapportarsi con la produzione, con i permessi vari, interfacciarsi con gli enti. Poi dalla mia ci metto sempre un elemento non negoziabile: il rispetto del territorio e il valore dei luoghi. Un luogo è la risultanza di vari incroci, il desiderato del regista, i costi, l’offerta del territorio e l’accessibilità, le distanze dagli alloggi ai luoghi di ripresa, dal campo base, i trasferimenti di mezzi e persone. Oltre alla parte autoriale vi è anche quella tecnica, i reparti, composta da decine di professionisti a cui si aggiungono figure locali. E bisogna fare anche i conti con il meteo e avere sempre un piano b, un sito alternativo. Ci sono registi che vogliono i luoghi giusti, che spesso non sono quelli più belli. E poi accade che bisogna trovare posti che costano meno o addirittura siano gratis. Spesso ho sentito ripetere: “noi siamo il cinema…!”, rimarcando la potenza evocati- va e anche di forza di illusione del cinema e della tv. A tal proposito mi piace ricordare un episodio: dovevano girare delle scene in un museo; comunicai che le riprese non potevano essere fatte prima di una settimana per indisponibilità dei locali del museo. Convinti di saper fare e dire meglio del loro location manager, andarono dalla responsabile del museo. La responsabile confermò che erano già calendarizzati da tempo altri appuntamenti ed eventi ugualmente importanti. “Noi siamo il cinema, sai quanta pubblicità avrà questo museo?” dissero. La responsabile garbatamente rispose: “Vabbè che problema c’è! È una fiction giusto? Vi do una targa del museo e la mettete davanti ad un qualsiasi museo di Roma e nessuno si accorgerà della differenza.” Le riprese si fecero in Basilicata ma nelle date che in- dicò la responsabile del museo. Nel cinema la Basilicata appare bene, co- me un luogo sognato a tratti visionario. E credo veramente che lo sia. Ho l’impressione che i lucani abbiano smarrito l’abitudine alla visione e il coraggio del sogno».
Di Antonella Pellettieri