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OLTRE LO SMART WORKING: IL CASO BASILICATA

L’approfondimento di Carmela Sallorenzo

La guerra russoucraina come la pandemia da Coronavirus del 2019 sono avvenimenti che ci hanno colpiti, con tutta la loro irruenza, cogliendoci impreparati, spaventati, disorientati. Se, per la prima volta – ed è questo il dato rilevante – l’epidemia si è connotata come pandemia (da pan, in greco, tutto, e domos, popolo), dall’altro, la guerra russo-ucraina, che era sembrata, all’inizio, una guerra impossibile, una triste parentesi, un evento destinato a consumarsi nel giro di poco tempo, anch’essa, ad oggi, ancora si trascina nel dolore e nella distruzione con importanti ripercussioni su diversi territori europei e mondiali. La geopolitica e le relazioni internazionali insegnano che ogni evento che si verifichi in un paese – come il battito d’ala di farfalla –ha conseguenze molto ampie e ridisegna poteri, logiche, interessi, assetti geografici, demografici, economici. Tralasciando una disamina accurata degli effetti che tale conflitto, alle porte dell’Europa, sta producendo ed i cui esiti sono, solo in parte, palesi e documenta- bili, mentre, in proiezione, si configura uno scenario imprevedibile in alcuni aspetti, certamente, a di- stanza dallo scoppio della pandemia, ormai quattro anni, fa è, invece, possibile ricostruire alcune trasformazioni profonde verificatesi o che, ancora, sono in nuce o in itinere. Il Covid-19, col suo ruolo, per così dire, epifanico, ha portato alla luce quello che, già, esisteva e sapevamo: la nostra fragilità come esseri umani e la fragilità di un sistema strutturale, organizzativo e non solo, che presenta falle, ritardi, e che necessitava di una riforma radicale, in questi anni, più volte invocata, ma platealmente, disattesa o incompiuta. Già, con la rivoluzione industriale 4.0, iniziata più di un decennio fa, era emersa l’esigenza di rivedere aspetti legati alla formazione e al sistema-lavoro, in risposta alla trasformazione digitale e all’automazione dei processi, e aveva richiesto, nel nostro paese, un cambio di passo per essere in linea con altri paesi europei ed extra- europei, più avanti rispetto a noi. Questo cambio di marcia e di visione è divenuto, con l’emergenza covid, nel nostro paese, improcrastinabile. Pertanto, chiusa la prima fase di emergenza, ci si è dovuti preparare ad un’altra, per il mondo e, nello specifico, per l’Italia: orientare le scelte politiche ed economiche verso direzioni e modelli che avessero e che devono avere il senso e la dimensione dell’”opportunità” e della “programmazione strutturata” nel medio e lungo termine; incoraggiare i progetti e le proposte innovative, che nascessero dai territori, con i territori e che parlassero ai singoli territori, in un’ottica di ripensamento complessivo, globale, nazionale e locale, delle logiche economico-produttive e lavorative. In quest’ottica di ripensamento delle logiche produttive e lavorative, un’interessante prospettiva è stata quella tracciata dal modello innovativo di south-working, il lavoro dal Sud, che supera il modello di smart- working (o meglio, parte dallo smart- working, il lavoro agile, per sorpassarlo) e che si è diffuso, con il lockdown, nel momento in cui le persone hanno iniziato a lavorare in altri luoghi diversi da quelli in cui vive- vano abitualmente, dove erano situati i vari uffici, si sono trasferite da Nord a Sud, nelle seconde case, o hanno fatto ritorno nelle città d’origine del mezzogiorno dove il contagio sembrava più contenuto. E se rimanessero a lavorare, per sempre qui? Dato che sarebbe stato difficile tornare, tout court, all’era BC (Before Coronavirus), il modello dello smart-working e del south-working (il lavoro da remoto, non telelavoro!) hanno indicato strade e sentieri interessanti e percorribili rispetto ad una necessaria ridefinizione organizzativa del lavoro solo laddove si creeranno, però, condizioni e pre-condizioni di cornice necessarie. Si pensi, al caso pionieristico della Global Shapers Palermo HUB, progettopilota del modello di southworking. La Global Shapers Palermo HUB ha inteso ridisegnare le ragioni che hanno portato, in passato e negli ultimi decenni, singoli uomini, donne o famiglie intere a trasferirsi al centro- nord o all’estero, gravitando attorno a pochi grandi agglomerati urbani, per lavorare in aziende che sono costrette a limitare il reclutamento in determinate aree geografiche, chiaramente, più vicine alla pro- pria sede. Pertanto – hanno osservato i fondatori di questo progetto-pilota- lo scenario che si era costruito, sino ad allora, ai loro occhi, è stato quello di città congestionate, con prezzi di abitazioni altissimi, ritmi serratissimi di vita, buona parte del guadagno impiegato solo per arrivare a fine mese ed un livello della qualità della vita, gioco-forza, penalizzato. I fondatori e sostenitori del south-working volevano e vogliono sovvertire questo paradigma e si sono chiesti: e se immaginassimo le persone lavorare per le aziende pubbliche e private, da remoto? E se il lavoro dei dipendenti fosse organizzato in base ad obiettivi e non più sul- la presenza? Quanti benefici avrebbero i di- pendenti e le aziende? Molti, in termini di benessere individuale, per i dipendenti e, di risparmio, per le aziende. Si aprirebbero anche nuovi scenari da ridisegnare dal punto di vista economico ed organizzativo: occorrerebbe costruire nuovi patti istituzionali con aziende, amministrazioni, Comuni; dar vita a nuove linee guida da seguire nel lavoro (quanto lavoro in presenza e quanto a distanza); stipulare nuovi contratti-quadro o contratti di reciprocità con le province o le aziende più grandi; edificare un numero maggiore di spazi di co-working o uffici-satellite, dedicati al lavoro agile; costruire piattaforme che facciano dialogare le varie iniziative ed i vari ambienti lavorativi da remoto. Il modello di south-working potrebbe, quindi, sì traghettare l’organizzazione del lavoro in un più strutturato e coordinato lavoro da remoto, appunto, lo smart-working (secondo i punti sopracitati), ma potrebbe, altresì, porsi ambiziosamente, come leva riorganizzativa della dina- mica del lavoro che porti a mitigare il divario e gap di sviluppo tra Nord e Sud. Lì dove ci sono condizioni di efficienza digitale e di infrastrutture o lì dove siano possibili cospicui investimenti nella digitalizzazione, si potrebbe ipotizzare di riportare una parte del lavoro al sud, “restituendo ai luoghi originari e natii” il capitale umano andato via per lavoro e, per effetto conseguente, ripensare il volto delle città e dei paesi del sud, in un’ottica di un Mezzogiorno ricostruito come possibile nuovo volano di sviluppo del territorio nazionale. Chiaramente, questa rivisitazione paradigmatica richiedeva e richiede un’attenta disamina d’insieme, innanzitutto, dello smartworking in sé e, poi, della sua eventuale evoluzione in south-working. Ci sono vantaggi e svantaggi che, infatti, vanno considerati: come osservano diversi studiosi, lo smartworking risulta più efficace, ad esempio, per chi svolge la parte operativa del lavoro, mentre gli spazi fisici risultano, ancora, necessari per gli operatori o lavori o funzioni, per così dire “creativi/e” che necessitano di condivisione di idee, di scambi e soluzioni innovative o per coloro che rappresentano i “nodi” del- l’organizzazione stessa. Ancora una volta, il tema non è solo occuparsi della riorganizzazione del lavoro, ma pensare e ripensare ad un’organizzazione del lavoro che non sia finalizzata ai soli aspetti contabili, ma che tenga conto anche del benessere delle persone. C’è necessità di ripensare ad una nuova cultura “della presenza”, ad una possibile incontro tra domanda ed offerta che by-passa la distanza di luoghi, ma anche ad una nuova cultura della condivisione, del- l’empatia, della fiducia, della condivisione e, non solo della connessione: una nuova cultura del la- voro “umanistica”, per così dire, che ponga al centro la persona proprio, ora, che il lavoratore è, fisicamente, decentrato. Pertanto, il mix tra lavoro da remoto e lavoro in presenza, unitamente, a questa nuova cultura manageriale devono configurarsi, necessariamente, come i binari su cui costruire il futuro del lavoro e delle future organizzazioni lavorative senza dimenticare il tema del “benessere” del lavoratore. Ma ritorniamo all’analisi del modello di south-working. Nel Sud-Italia, oltre l’esperienza della Global Shapers Palermo HUB, esistono altri esempi virtuosi che hanno marciato nella direzione della sperimentazione e diffusione dello smart-working, co- working ed anche co-living, già prima del Covid e che hanno agevolato, così facendo, la mobilità temporale o definitiva di tanti lavoratori, l’incontro tra professionisti, nomadi digitali, investitori e la condivisione di spazi di lavoro, di idee, progetti finanche di spazi abitativi. E’ il caso del progetto di Casa Netural, un progetto, nato a Matera, in Basilicata, nel 2012. Se questi casi dimostrano che una nuova cultura e una nuova riorganizzazione del lavoro è possibile e funziona, anche da tempo, quello che ci si è chiesti e occorre continuare a chiedersi è se i nostri territori, in particolare, quelli del Sud, siano in grado di replicare, in maniera stabile e continuativa, le esperienze come quelle, appena citate, di smart-working, di coworking e del più ambizioso south-working. Non basta dire: riportiamo e manteniamo il lavoro al Sud in remoto o creiamo spazi di lavoro condivisi. Dove sarà possibile farlo nel lungo periodo? Quali caratteristiche dovranno avere questi territori per accogliere idee e nuove formule lavorative così ambiziose? Se il Covid ha riportato il lavoro al Sud, di quale Sud si è parlato e si parla? E dato il rovesciamento del paradigma, in termini di lavoro – spostamento del capitale umano da Nord a Sud – come attrarre anche investitori e progetti innovativi? Se, nel caso delle province, soprattutto, quelle dotate di buoni servizi (infrastrutture, collegamenti, strade, scuole), la costruzione di nuovi spazi di co-working e punti di lavoro agile, può costituire un obiettivo realizzabile, in un arco temporale di medio e lunga azione, con un’adeguata analisi dei contesti, una progettazione accurata e l’impiego di investimenti e di risorse economiche stanziate, a livello europeo e nazionale dal PNRR, la vera novità e sfida, nella diffusione del south e smart-working, è data dal ruolo cruciale che possono e potranno svolgere i piccoli comuni. Infatti, questi territori minori, fino a ieri e all’altro ieri, luoghi che “non contano”, con e dopo l’emergenza sanitaria hanno assunto e possono assumere una grande rilevanza, in un quadro di ridefinizione degli assetti organizzativi del lavoro e del sistema di valori che lo sottendono, in quanto sono divenuti luoghi- chiave all’interno di un nuovo Umanesimo che si sta affermando “in cui si integra il luogo in cui si lavora con il luogo in cui si vive e si trascorre il tempo libero”. In questa direzione, si è operato a Tursi in Basilicata o in altri comuni del Molise, dove si sono incentivati bandi per l’affitto di abitazioni dismesse o non abitate, a costo zero, con la condizionalità, per le persone interessate, di creare qualche attività in loco. Iniziative di questa natura potrebbero e possono essere replicate, in altri comuni del Sud, e colte come “occasione di ritorno o trasferimento” di famiglie in luoghi tranquilli in cui abitare e condurre il proprio lavoro in smart- working (purchè esista una rete internet efficiente) o come possibilità di promozione di start-up attraverso il rilancio di attività, costruite di concerto con le comunità locali (si pensi al rilancio di alcune attività artigianali). Per fare ciò, però, occorre pensare ad una Strategia Nazionale di rilancio delle aree interne intrecciata ad un approccio glocal, che tenga conto delle specificità dei vari contesti in modo che il capitale umano o talune risorse lavorative ritornino, sì, in loco, ma si intreccino con le comunità locali, riattivino le energie locali e rendano tali aree anche attrattive per progetti imprenditoriali esterni o investitori stranieri. Pertanto, messe a fuoco le tante risorse comunitarie di cui si dispone, in questo momento con il PNRR, per realizzare infrastrutture, collateralmente, si può pensare di impiegare tali risorse anche per concepts innovativi in termini di “abitare e abitazione”, per creare luoghi di lavoro diffusi e di sostegno per l’imprenditoria –anche e soprattutto quella femminile e nell’area del Mezzogiorno-. Solo in questo modo, la replicabilità del modello di southworking o di lavoro in remoto, nei piccoli centri interni, può diventare una scelta percorribile e di successo, nel lungo termine, per chi è alla ricerca della salvaguardia della qualità della vita, della dinamica dello slowtime (tempo lento) e della sicurezza – tanto richiesta in questo momento di pandemia – unita alla necessità di continuare a lavorare o, per gli imprenditori, di fare investimenti. Ma come rintracciare le aree o i comuni su cui investire per promuovere, in un’ottica di ridefinizione complessiva e futura, lo smart-working o il southworking o interventi imprenditoriali? Effettuare un’azione a tappeto o selezionare determinate aree? Se sì, con quali criteri? Facciamo riferimento ancora al caso Basilicata. In questa regione, ad esempio , la Facoltà di Ingegneria, di concerto con quella di Agraria e con i vari Comuni potrebbe fare un’azione di mapping (sul modello di quello seguito, al Nord, dal Politecnico di Milano, in collaborazione con il Touring Club) di alcuni piccoli centri o in stato di abbandono, solo, ad un massimo di distanza di tot chilometri da un aeroporto o da un centro urbano. È la stessa direzione che potrebbe essere portata avanti al Sud, considerando solo Comuni in prossimità di collegamenti o di province ben servite in termini di servizi. A seguito di questa mappatura, si dovrebbe creare una condivisione dei risultati (sul modello dell’icloud) accessibile a tutti gli eventuali e/o potenziali stake- holders che metta insieme e faccia dialogare Università, Dipartimenti, Enti di Formazione, Imprese, Enti di Ricerca, Hub territoriali, Comuni per costruire, poi, i successivi interventi operativi una volta individuati i comuni di interesse. Pertanto, questi casi dimostrano che la chiave di sviluppo dei piccoli territori è e dovrà essere la progettazione partecipata. Solo i progetti che avranno il senso ed il respiro dei territo- ri e delle vocazioni dei territori (i goals del PNRR vanno in questa direzione) e non saranno calati dal- l’alto, potranno rendere gli abitanti dei comuni operatori e promotori territoriali nel medio e lungo termine. Ma non solo. Occorrerà che tutti i dati, le idee, i case-studies , i rolemodels siano condivisi e diffusi: si possono ipotizzare, pertanto, sportelli fisici o virtuali nei vari Comuni o in zone aggregate che mettano in rete incubatori, citta- dini, enti, imprese, piattaforme cui accedere in modalità open-source. Va da sé, che il tema della progettazione partecipata si intreccia con la questione, già citata, dell’efficienza delle infrastrutture e dei servizi dei e nei comuni. Se spostiamo lo sguardo nelle regioni del Sud, il tema diventa cruciale, se non determinante per l’esito positivo o per la replicabilità delle varie iniziative promosse per la riattiva- zione economico-sociale dei circuiti territoriali delle arre interne e dei piccoli comuni. Prendiamo ancora una volta il caso della Basilicata: ripristinare la funzionalità estiva e/o stagionale dell’aeroporto “Enrico Mattei” di Pisticci (MT) o rafforzare la linea ferroviaria di Matera (che ora è più attiva sull’asse Bari-Matera) costituiscono occasioni di sviluppo importanti per questo territorio. Ma la questione non riguarda solo Matera: il sistema logistico di tutte le aree interne lucane presenta inefficienze gravissime, pertanto, se non si investe nella capacità di interconnettere, in forma intermodale, diverse forme di trasporto, sarà impossibile fare un salto quantitativo e qualitativo o implementare forme di organizzazione di la- voro alternative o portare, anzi riportare, talenti al Sud. Occorre puntare anche sulla viabilità secondaria che costituisce, in regioni come questa, a carattere prevalentemente montuoso, lo strumento di connessione prioritario per aree più interne o di piccoli comuni unitamente ad un potenziamento del servizio ferroviario (come citato prima) per connettersi con hubs portuali e aeroportuali vicini e, quindi, garantire e incentivare mobilità, spostamento e flussi di lavoratori, professionisti, investitori. Se gli investimenti in termini di infrastrutture, collegamenti e servizi costituiscono la premessa, non- ché una necessità, per territori, come quelli del Sud per ospitare un cambio di prospettiva e nuovi modelli alternativi di lavoro e di vita, è anche vero che questi potranno essere implementati, efficacemente, se accompagnati anche da un cambio di prospettiva e mentalità delle persone, del capitale umano e delle risorse umane che quei territori li abitano e li connotano identitariamente. Oltre l’adesione e adozione al senso della progettazione compartecipata, occorre creare, cioè, un eco-sistema umano, un humus e sostrato culturale che colga e accolga positivamente questi segnali di rinnovamento in cui siano recuperati il tema della professionalità, della fiducia, del- la meritocrazia come prioritari ed in cui la formazione, le competenze, il sistema valoriale siano orientati verso quello che il nuovo mercato e le nuove professioni richiedono in un mix di digital and soft skills abilities. Il mondo di oggi e, ancor più quello di domani, parlano, mai come ora, parole come innovazione, fiducia, autogestione, responsabilità, merito, condivisione, compenetrazione, umanesimo, ed i nuovi paradigmi di lavoro ci richiedono flessibilità, creatività, adattabilità, pensiero creativo, collaborazione. Saremo in grado di esserne portatori e portavoci? Sì, solo diventando e sentendoci tutti “responsabilmente change- makers”e cavalcando questo cambiamento, che da tempo, era atteso, e che il Covid ci ha imposto con forza.

Di Carmela Sallorenzo

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