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ASSOLTI TUTTI GLI IMPUTATI PER NON AVERE COMMESSO IL REATO ~ OMICIDIO SERENA MOLLICONE, SI CERCA ANCORA L’ASSASSINO?

PER CORRETTA INFORMAZIONE, FACILE LETTURA E CONSULTAZIONI SI RIPORTA IL TESTO COMPLETO ED INTEGRALE DELLA SENTENZA DEL 12 LUGLIO DEPOSITATA IL 27 SETTEMBRE 2024

È GIUSTO INFORMARE
SERENA MOLLICONE 18anni

CIAO SERENA, SE PUOI PERDONACI 

UN CASO ALLA VOLTA FINO ALLA FINE

LE SENTENZE VANNO LETTE, ED ANCHE CAPITE, APPLICATE E RISPETTATE, SENZA POLEMICHE

ASSOLTI TUTTI GLI IMPUTATI PER NON AVERE COMMESSO IL REATO ~ OMICIDIO SERENA MOLLICONE, SI CERCA ANCORA L’ASSASSINO?

L’ex maresciallo Franco Mottola, la moglie Anna Maria e il figlio Marco

L’omicidio di Serena Mollicone è un delitto rimasto irrisolto, commesso il 1 giugno del 2001 ad Arce in provincia di Frosinone.

Il drammatico episodio suscitò un grande interesse nell’opinione pubblica, sia per la giovane età della vittima, appena 18enne, sia per il coinvolgimento di appartenenti all’Arma dei Carabinieri.

La giovane scomparve il 1 giugno 2001 e venne ritrovata senza vita due giorni dopo in località Fontecupa, nel territorio di Fontana Liri (Fr).

Il processo per la morte della 18enne Serena vide l’assoluzione del maresciallo dei Carabinieri Franco Mottola, di suo figlio Marco, e della moglie Annamaria “per non aver commesso il fatto”

L’ex maresciallo Franco Mottola, la moglie Anna Maria e il figlio Marco

Furono assolti perché il fatto non sussiste anche gli altri due Carabinieri Vincenzo Quatrale, accusato di concorso nell’omicidio e Francesco Suprano, accusato di favoreggiamento

🔹IL DELITTO DI ARCE RESTA SENZA COLPEVOLI ASSOLTI ANCHE IN APPELLO I 5 IMPUTATI DEL PROCESSO SERENA MOLLICONE

Il delitto di Arce resta senza colpevoli.

Assolti anche in appello i 5 imputati del processo Mollicone.

Gli indizi non sono così consistenti da determinare una prova al di là di ogni ragionevole dubbio

E dopo due anni esatti, si ripete lo stesso copione: tutti assolti

SERENA MOLLICONE 18anni

🔹L’efferato omicidio della 18enne Serena Mollicone, commesso il 1 giugno del 2001 ad Arce in provincia di Frosinone, è un delitto rimasto irrisolto

Accusati del barbaro delitto che ha sconvolto l’opinione pubblica il maresciallo dei Carabinieri Franco Mottola, al periodo del drammatico episodio, comandante della caserma di Arce, suo figlio Marco, la moglie Annamaria, sono stati assolti con Sentenza del 12 luglio 2022 dalla Corte D’Assise di Cassino “per non aver commesso il fatto”. Furono assolti perché il fatto non sussiste anche gli altri due Carabinieri Vincenzo Quatrale, rispettivamente accusati di concorso nell’omicidio e Francesco Suprano, per  favoreggiamento.

Con Sentenza del 15 luglio 2024, la Corte di Assise D’Appello di Roma, ha emesso analoga pronuncia assolutoria per tutti gli imputati. (segue copia integrale)

In seguito alla assoluzione di primo grado gli imputati ed il loro team difensivo sono stati letteralmente aggrediti da un gruppo di soggetti inferociti che non hanno gradito le determinazioni della Corte accusando gli ex imputati di essere gli assassini della giovane Serena.

I Mottola alcuni mesi fa hanno reso noto di avere querelato presso la Procura di Perugia, Roberta Bruzzone consulente privato della parte civile per le ipotesi di reato di diffamazione, calunnia e falsa testimonianza che avrebbe commesso nel corso del dibattimento per l’omicidio di Serena Mollicone.

Il comunicato stampa recita:

“[—]Basti citare che l’abbiamo denunciata perché ha dichiarato falsamente quanto segue:

  I. Carmine Belli ha riconosciuto in Marco Mottola il ragazzo biondo mechato che strattonava Serena: FALSO.

II. Il maresciallo Mottola il giorno del funerale ha prelevato Guglielmo Mollicone di propria iniziativa con l’intenzione di farlo sospettare come coinvolto: FALSO, L’ORDINE VENNE IMPARTITO DAL CAP. TROMBETTI.

III.  Sul nastro adesivo che legava Serena non e’ stata rinvenuta nemmeno un’impronta, segno che il soggetto aveva una competenza forense… quindi..: FALSO, SUI NASTRI C’ERANO MOLTI FRAMMENTI DI IMPRONTE E IMPRONTE.

Questo perche’ ci sentiamo perseguitati dalla Bruzzone, da alcuni personaggi delle Iene fra cui la Ruggeri, da altre persone.

Naturalmente continueremo ad adire legalmente verso chi ci offende, diffama e calunnia. Saluti. Franco Mottola, Marco Mottola”

(Fonte: Delitto di Arce, i Mottola denunciano la Bruzzone: ecco le “falsità e calunnie contro di noi” | Cronache Agenzia Giornalistica)

🔺PER CORRETTA INFORMAZIONE, FACILE LETTURA E CONSULTAZIONI SI RIPORTA IL TESTO COMPLETO ED INTEGRALE DELLA SENTENZA DEL 12 LUGLIO DEPOSITATA IL 27 SETTEMBRE 2024

REDATTA SCHEDA PER CASELLARIO Addì

FOGLIO NOTIZIE Redatto il

Inviato il

N. N. N

15/2023 del Reg. Gen. 24/2024 del Reg. Sent. 2088/11 Notizie Reato

1ª CORTE DI ASSISE DI APPELLO DI ROMA

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

L’anno duemilaventiquattro il giorno 12 del mese di Luglio in Roma

LA CORTE DI ASSISE DI APPELLO DI ROMA

composta dai Signori:

1. dott. Vincenzo Gaetano CAPOZZA Presidente

2. dott. Renato Aldo Tiziano LAVIOLA Consigliere

3. Sig. Paolo MARIANO

4. Sig. Roberto PORTO

5. Sig.Stefano PASSACANTILLI

*Giudici popolari

6. Sig. Luca FAVARETTO

7. Sig.ra Loredana MAGLIOCCHETTI

8 Sig. Salvatore MUNDO

ha pronunciato in pubblica udienza la seguente

SENTENZA

nella causa penale in grado d’appello

CONTRO

1) MOTTOLA Marco, n. Palestrina (RM) li 04/07/1982 – res. Teano (CE), Via Anfiteatro n. 1- elett. dom.to presso lo studio dell’Avv. Di Giuseppe Piergiorgio, Via Bartolo n. 4- Perugia –

Difeso dall’Avv. Di Giuseppe Piergiorgio del foro di Perugia e Avv. Germani Francesco del foro di Cassino – Entrambe di fiducia – presenti –

LIBERO PRESENTE

 

Estratto Esecutivo

il

– Procura Generale ROMA

– Proc.Rep. c/o Trib.

– Corte Assise

– Uf.Ademp. Esec. Trib/GIP

PA

2) MOTTOLA Franco, n. Teano (CE) il 10/12/1956 – ivi res. ni Via Anfiteatro n. 1- elett. dom.to presso lo studio dell’Avv. Germani Francesco, Via Magni, 14 Arce (F R )-

Difeso dall’Avv. Germani Francesco e Avv. Meta Enrico entrambe del foro di Cassino ed entrambe di fiducia – presenti –

LIBERO PRESENTE

3) MOTTOLA Anna Maria, n. Teano (CE) il 04/05/1961 – ivi res. in Via Anfiteatro n. 1- elett. dom.ta presso ol studio dell’Avv. Marsella Mauro, Via Casilina n. 68/F – Colfelice (FR) –

Difesa dall’Avv. Germani Francesco e Avv. Marsella Mauro entrambe del foro di Cassino ed entrambe di fiducia – presenti –

LIBERA ASSENTE

4) QUATRALE Vincenzo, n. Cassino (FR) il 16/07/1962 – ivi res. ni Piazza 18 Maggio 1944 n. 19 – elett. dom.to presso lo studio dell’Avv. Francesco Candido, Via Roma n. 29 – Villa Latina (FR) –

Difeso dall’Avv. Candido Francesco del foro di Cassino e Avv. D’Arpino Paolo del foro di Frosinone – entrambe di fiducia – presenti –

LIBERO ASSENTE

5) SUPRANO Francesco, n. Itri (LT) il 29/03/1968 – res. Sora (FR) ni Via Camangi n. 30 (d.d.) –

Difeso dall’Avv. Mancini Cinzia del foro di Frosinone e Avv. Germani Emiliano del foro di Cassino – entrambe di fiducia – presenti –

LIBERO PRESENTE

Parti Civili:

1) MOLLICONE Guglielmo, n. Arce (FR) il 23/09/1948 – (deceduto) –

2) MOLLICONE Antonio, n. Arce (FR) li 03/12/1950 – ivi res. Via Manfredi, 15 Rappresentate dall’Avv. De Santis Dario Romano del foro di Cassino – presente –

3) MOLLICONE Consuelo, n. Arce (FR) il 25/06/1972 – res. Rocca d’Arce (FR), Via Pantanone n. 2 –

Rappresentata dall’Avv. Salera Sandro, del foro di Cassino – sos.to dall’Avv. lafrate Antonio – presente –

4) MOLLICONE Armida, n. Arce (FR) il 05/04/1956 – res. Erba (CO), Via VI Novembre n. 17/A –

Rappresentata dall’Avv. Nardoni Federica del foro di Frosinone – presente

5) TUZI Maria, nata a Sora (FR) il 07/09/1981 – ivi res. Via Valfrancesca n. 9 –

6) TUZI Fabio, nato a Sora (FR) il 24/01/1983 – ivi res. Via Valfrancesca n. 9 – Rappresentate dall’Avv. Castellucci Elisa del foro di Cassino – presente –

INOL

7) MINISTERO DELLA DIFESA – Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, in persona del Ministro p.t.-

Rappresentato dall’Avvocatura Generale dello Stato, Via dei Portoghesi, 12 – Roma in persona dell’Avv. Greco Maurizio – Avv. Romano Valeria – presente –

8) COMUNE DI ARCE, in persona sindaco p.t. sig. Luigi Germani, n. Arce (FR) il 7/11/1949 – non appellante –

Rappresentato dall’Avv. Radice Antonio del foro di Frosinone – presente –

IMPUTATI

(v. allegati)

Appellante il PM e le Parti Civili avverso la sentenza della Corte di Assise di Cassino emessa ni data 15/07/2022 la quale assolveva Mottola Marco, Mottola Franco e Mottola Anna Maria dal reato loro ascritto al capo a) per non aver commesso il fatto, nonché Quatrale Vincenzo e Suprano Francesco dai reati loro rispettivamente ascritti ai capi b) c) e d) perché il fatto non sussiste.

CONCLUSIONI

– Il P.G. chiede la condanna alla pena di anni 24 di reclusione per Franco Mottola e anni 2 di reclusione per Marco e Anna Maria Mottola per il capo a); chiede l’assoluzione di Quatrale Vincenzo ai sensi dell’art. 530 – 2° comma epp dal reato di cui al capo b) perchè il fatto non costituisce reato e dal reato di cui al capo c) perché li fatto nono sussiste; chiede la condanna per Suprano Francesco ad anni 4 di reclusione tenuto conto della rinuncia alla prescrizione. Chiede altresì la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, per le valutazioni di competenza ni ordine alle testimonianze di Torriero Anna Rita, Gemma Massimiliano e Tomaselli Pier Paolo.

L’Avv. Castellucci Elisa per la parte civile Tuzi Maria e Tuzi Fabio chiede l’accoglimento dei motivi di appello riportandosi alle conclusioni scritte.

– L’Avv. Romano Valeria per la parte civile Ministero della Difesa conclude riportandosi ai motivi di appello e alle conclusioni del PG.

III

– L’Avv. Radice Antonio per la parte civile Comune di Arce si riporta alle note difensive e alle conclusioni scritte.

– L’Avv. De Santis Dario per le parti civili Mollicone Antonio e Mollicone Consuelo ni qualità di erede di Mollicone Guglielmo conclude riportandosi alle conclusioni scritte.

– L’Avv. lafrate Antonio in sostituzione dell’Avv. Salera Sandro per la parte civile Mollicone Consuelo in proprio conclude riportandosi alle conclusioni scritte.

– L’Avv. Nardoni Federica per la parte civile Mollicone Armida conclude riportandosi alle conclusioni scritte.

– L’Avv. Mancini Cinzia e Avv. Germani Emiliano, difensori di Suprano Francesco chiedono l’assoluzione perché li fatto non sussiste o perché non costituisce reato riportandosi alle conclusioni della memoria difensiva.

– – –

L’Avv. Candido Francesco e Avv. D’Arpino Paolo, difensori di Quatrale Vincenzo chiedono l’assoluzione per insussistenza del fatto ai sensi dell’art. 530 – °1 comma epp sia per li 1° che per il 2° capo di imputazione.

L’Avv. Meta Enrico, difensore di Mottola Franco chiede l’assoluzione per non aver commesso il fatto e in subordine l’assoluzione ai sensi dell’art. 530 cpv cpp.

L’Avv. Germani Francesco, difensore di tutti gli imputati Mottola, chiede la conferma ni toto della sentenza assolutoria di I° grado.

L’Avv. Di Giuseppe Piergiorgio, difensore di Mottola Marco chiede l’assoluzione con formula piena o per non aver commesso il fatto.

L’Avv. Marsella Mauro di Mottola Anna Maria chiede l’assoluzione ex art. 530 – 1comma cpp per non aver commesso il fatto.

IV

Il giudizio di primo grado.

MOTIVAZIONE

Con sentenza emessa i l 1 5 luglio 2022, l a Corte di Assise di Cassino assolveva MOTTOLA MARCO, MOTTOLA FRANCO e MOTTOLA ANNA MARIA dal reato di omicidio in concorso in danno di Serena Mollicone per non aver commesso li fatto.

Con la stessa decisione, QUATRALE VINCENZO – titolare, quale Maresciallo dei carabinieri presente nella Stazione di Arce, ove, secondo l’accusa, sarebbe avvenuta l’aggressione nei confronti della ragazza, di una posizione di garanzia, al pari del Brigadiere Tuzi Santino, morto suicida l’11 aprile 2008, e, percio, accusato di non aver soccorso la stessa ragazza, e di avere contribuito a determinarne la morte – veniva assolto perché li fatto non s u s s i s t e ; c o n la s t e s s a f o r m u l a Q U AT R A L E e r a a s s o l t o d a l l ‘ i m p u t a z i o n e di istigazione al suicidio del Brigadiere Tuzi.

Analoga pronuncia assolutoria veniva e m e s s a nei confronti di SUPRANO FRANCESCO, imputato di favoreggiamento, per avere aiutato gli autori dell’omicidio a eludere le investigazioni dell’Autorità giudiziaria.

L’istruzione dibattimentale è s t a t a lunga e complessa, ed è stata meticolosamente ricostruita nella prima parte della sentenza.

La Corte ha dato atto della notevole quantità del materiale probatorio e ha premesso una precisazione sul metodo che avrebbe seguito nell’apprezzamento dei risultati raggiunti, dichiarando di procedere a un’analisi delle emergenze dibattimentali per singoli argomenti di prova, per poi effettuare una valutazione complessiva.

lI primo Giudice ha effettuato una ricognizione degli atti di indagine, fin dalla scomparsa di Serena Mollicone (avvenuta li 1° giugno 2001), indagini che si sono intensificate dopo li rinvenimento del cadavere, verificatosi domenica 3 giugno 2001 in una zona boscosa, in località Fonte Cupa, nel territorio del Comune di Fontana Liri (FR).

Si è, poi, dato atto degli esiti delle prime indagini, che avevano determinato gli investigatori a concentrare gli sforzi sul contesto familiare, amicale e sentimentale della giovane vittima.

La decisione di primo grado ha, quindi, dato ampio conto della diversa pista investigativa, che ha portato all’incriminazione di Carmine Belli, al processo nei suoi confronti per l’omicidio di Serena e alla sua piena assoluzione, con sentenza che è divenuta irrevocabile li 26 ottobre 2006.

Un lungo capitolo è dedicato alla genesi e agli sviluppi della riapertura delle indagini, e al ruolo rivestito dal Maresciallo Gaetano Evangelista, sentito come testimone alle udienze dal 1°ottobre e dell’8 ottobre 2021,

li quale assunse li Comando della Stazione dei Carabinieri di Arce nel febbraio del 2004, per rimanervi fino al 2020.

La Corte ha rappresentato tutti gli elementi emersi dalle deposizioni del testimone e ha approfondito gli aspetti più rilevanti della vicenda, a cominciare dalla porta rotta nello “alloggio a trattativa privata” della Caserma di Arce, per proseguire con li problema dei militari presenti nella Stazione dei Carabinieri di Arce li 1° giugno 2001, per concludere con le attività svolte dagli stessi ni quella giornata (sulla base dei documenti ufficiali, dell’esame dei tabulati telefonici, delle dichiarazioni rese nel corso dell’esame dall’imputato Vincenzo QUATRALE).

Una parte significativa della delibazione delle prove raccolte è dedicata all’esame delle sommarie informazioni testimoniali rese dal Brigadiere Santino Tuzi li 28 marzo e il 9 aprile 2008, i cui verbali sono stati acquisiti, ex art. 512 c.p.p., essendo egli deceduto 111 aprile 2008, e alla valutazione di una conversazione telefonica intercorsa tra Tuzi e la Signora Anna Rita Torriero, e di una conversazione ambientale del colloquio, avvenuto nell’automobile di QUATRALE, tra questi e lo stesso Tuzi.

La Corte, anticipando li giudizio complessivo sul compendio probatorio, ha posto in evidenza l’assenza di riscontri testimoniali in ordine all’ingresso di Serena nella Stazione dei Carabinieri li 1° giugno 2001.

Nella motivazione vi è, poi, un lungo paragrafo dedicato al suicidio del Brigadiere Tuzi.

Si dà, quindi, atto del nuovo impulso alle indagini, soprattutto attraverso accertamenti di natura tecnico-scientifica, a seguito del supplemento di indagini disposto dal Giudice per le indagini preliminari con l’ordinanza 13 gennaio 2016, accertamenti sui quali si sofferma a lungo la Corte.

Dopo l’approfondita disamina dei risultati delle consulenze tecniche e delle diverse valutazioni compiute dagli esperti nominati dalle parti, la Corte affronta il tema dei movimenti degli imputati nel giorno della scomparsa di Serena Mollicone, e delle loro dichiarazioni in merito alla rottura della porta.

Le ultime dodici pagine della sentenza sono dedicate alle valutazioni giuridiche e alle conclusioni.

L’apprezzamento del compendio probatorio, che la Corte definisce “di carattere esclusivamente indiziario”, è preceduto da

una rassegna giurisprudenziale sull’essenza e sulla corretta valutazione degli indizi.

La Corte osserva – con riferimento all’ipotesi di omicidio – che “numerosi elementi indiziari, costituenti dei tasselli fondamentali dell’impianto accusatorio d e l P.M., non sono sorretti da un sufficiente e convincente compendio probatorio”, che “dalla stessa istruttoria dibattimentale sono emerse delle prove che si pongono in termini contrastanti rispetto alla ricostruzione dei fatti da parte della pubblica accusa”, e che “all’esito dell’istruttoria dibattimentale si siano inoltre evidenziate delle importanti lacune probatorie in ordine alla partecipazione dei singoli imputati

alla condotta omicidiaria posta

a loro carico”

Analoghe considerazioni sono state svolte – soprattutto attraverso la valorizzazione del dato dell’inattendibilità delle dichiarazioni rese agli inquirenti dal Brigadiere Tuzi in ordine all’ingresso della ragazza in Caserma li giorno della sua scomparsa e del dato della sostanziale e ricostruita veridicità dell’ordine di servizio n. 1 del 1° giugno 2001 della Stazione di Arce – per assolvere li Maresciallo QUATRALE dal delitto a lui ascritto al capo B), mentre non sono stati ritenuti provati, né sotto li profilo oggettivo né sotto li profilo

soggettivo, gli elementi costitutivi del delitto di istigazione al suicidio descritto nel capo C).

Non è stata raggiunta neanche la prova del delitto di favoreggiamento attribuito all’Appuntato SUPRANO, per cui anche nei suoi confronti è stata pronunciata, sia pure con li richiamo (come, del resto, per gli altri imputati) al capoverso dell’art. 530 c.p.p., sentenza di assoluzione.

Gli atti d’impugnazione.

La sentenza è stata oggetto di impugnazione da parte della Procura della Repubblica presso li Tribunale di Cassino, dell’Avvocatura dello Stato in rappresentanza del Ministero della Difesa, di Consuelo Mollicone (con due distinti atti di appello, uno quale sorella della vittima, l’altro quale erede di Guglielmo Mollicone, padre di Serena), di Antonio Mollicone (zio della vittima), di Armida Mollicone (zia di Serena, tale appellante ha depositato, li 10 ottobre u.s., una memoria integrativa, da valere anche come motivi aggiunti), di Maria e Fabio Tuzi, figli del defunto Brigadiere Tuzi.

L’imputato Francesco SUPRANO ha depositato una lunga e articolata memoria difensiva.

Le critiche d e l l aPubblica Accusa alla decisione della Corte di Cassino prendono le mosse da una opposta valutazione circa l’attendibilità intrinseca di Santino Tuzi, attraverso l’illustrazione delle dichiarazioni del Maresciallo Evangelista, le denunce proposte contro di lui da Tuzi e Suprano, la diversa lettura delle sommarie informazioni rese da Tuzi e delle conversazioni

intercorse tra questi e la Sig.ra Torriero, nonché da una diversa interpretazione dell’intercettazione ambientale tra Quatrale e Tuzi, e delle sommarie informazioni rese da quest’ultimo due giorni prima di togliersi la vita. È convinzione della Procura appellante che li Brigadiere vide entrare Serena Mollicone ni caserma la mattina del 1° giugno 2001, e che la Corte abbia erroneamente escluso tale accadimento, come, altrettanto erroneamente, non abbia dato credito alla dichiarazione del Brigadiere Cuomo di aver visto rientrare in caserma li Maresciallo Mottola alla guida della sua auto privata, con a fianco la moglie, nella notte tra li 1° e li 2 giugno 2001.

La sentenza viene criticata anche nella parte in cui afferma l’assenza di conferme dichiarative alle dichiarazioni di Tuzi: a tal riguardo viene impugnata l’ordinanza con la quale la Corte non ha ammesso la testimonianza del Maresciallo Tersigni avente ad oggetto quanto a lui riferito da Tuzi e riportato nell’annotazione di servizio del 15 aprile 2008, e viene altresi impugnato li rigetto della richiesta di acquisizione del video visionato l’8 aprile 2022 durante la deposizione di Marco Malnati.

L’appellante s i sofferma, poi, sull’attendibilità estrinseca d i Santino Tuzi, bollando come falso l’ordine di servizio n.1 del 1° giugno 2001, nella parte ni cui attesta li servizio esterno compiuto da Quatrale e Tuzi, e svolgendo una serie di controdeduzioni agli argomenti svolti dalla Corte alle pagine 79/118 della sentenza.

Viene, quindi, criticata la credibilità attribuita dal Collegio cassinate all’imputato QUATRALE, attribuzione avvenuta senza valutare le sue due contrastanti versioni e senza effettuare una serie di logiche considerazioni.

L’accusa prende, inoltre, di mira le valutazioni effettuate da pagina 155 a pagina 211 della sentenza in ordine alle consulenze tecniche dell’accusa, svolte dagli esperti Cattaneo, Sala, Casamassima, Pilli, Magni e D’Aloja, formulando analitici rilievi e redigendo (pag. 150 e ss.) considerazioni finali sulla valutazione di tutte le consulenze tecniche.

L’appellante passa, di seguito, al setaccio le dichiarazioni rese dagli imputati nel corso dei rispettivi esami (il Maresciallo MOTTOLA non si è sottoposto ad esame, ma ha reso spontanee dichiarazioni), ponendo ni evidenza alcune contraddizioni non rilevate dalla Corte.

Nell’atto di appello si critica, poi, la valutazione data ad alcune fondamentali dichiarazioni, rese da Carmine Belli, Pierpaolo Tomaselli e Simonetta Bianchi. E, a proposito di quest’ultima, la Procura ha impugnato l’ordinanza – emessa dalla Corte li 27 giugno 2022 – di rigetto della richiesta di acquisizione, ex art. 500, comma quarto, c.p.p., delle dichiarazioni rese dalla stessa durante le indagini preliminari.

La Procura ha, inoltre, stigmatizzato l’erronea valutazione dell’annotazione di servizio redatta li 27 giugno 2001 dal Maresciallo Mottola e ha indicato lo stesso quale autore di depistaggi, in particolare quelli finalizzati a “far sparire” dal radar delle indagini li ragazzo biondo dai capelli mesciati e possessore di una Y10 bianca.

Viene, in proposito, impugnata l’ordinanza con la quale, li 15 luglio 2022, la Corte ha rigettato la richiesta istruttoria, ai sensi dell’art. 507 c.p.p., di sentire Ramon lommi, parrucchiere di Arce.

Dopo avere svolto osservazioni e riflessioni sulla personalità degli imputati, sulla falsità dei loro alibi e su altre anomalie delle indagini, l’appellante ha svolto le conclusioni, accompagnate da valutazioni giuridiche.

Le richieste finali sono nel senso del ribaltamento della sentenza, con l’affermazione della penale responsabilità degli imputati per i reati di cui ai capi A), B) e D) della rubrica, con riqualificazione del reato di cui al capo C) nell’ipotesi di

omicidio colposo,

p r e v i a rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, ai sensi dell’art. 603 commi 1 e 3 bis c.p.p., attraverso l’audizione di Carmine Belli, Emilio Cuomo, e dei consulenti Cristina Cattaneo, Remo Sala, Rosario Casamassima, Vittorio Della Guardia, Ferdinando Scatamacchia, Elena Pilli, Ernesto D’Aloja e Cesare Rapone, nonché, ex art. 507 c.p.p., di Ramon lommi.

L’appellante ha anche rammentato a questo Giudice le impugnazioni, ex art. 586 c.p.p., delle ordinanze rese in materia di prova dalla Corte, già segnalate nel corpo delle diffuse argomentazioni contenute nell’atto di appello.

L’Avvocatura dello Stato, per conto del Ministero della Difesa, ha sostenuto di condividere la ricostruzione dei fatti operata dalla Pubblica a c c u s a , ricostruzione gravemente pregiudizievole per l’onore e il prestigio del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri.

La sentenza meriterebbe di essere riformata perché .”. la Corte d’Assise, nel ritenere il quadro probatorio fornito dall’Accusa non idoneo a condurre all’affermazione ‘oltre ogni ragionevole dubbio’ della responsabilità degli imputati per la commissione dei fatti loro ascritti, ha violato il canone della ‘ragionevolezza’ nella valutazione del materiale probatorio finendo per dare rilievo ad un’ipotesi ricostruttiva alternativa di natura del tutto congetturale”.

La critica della sentenza è avvenuta attraverso la contestazione di vari

passaggi motivazionali, prendendo specificamente in considerazione gli aspetti relativi a 1) i rapporti tra Marco MOTTOLA e Serena Mollicone; 2) l’ingresso di quest’ultima ni Caserma, così come riferito dal Brigadiere Santino Tuzi li 28 marzo 2008 e li 9 aprile 2008; 3) l’omicidio della ragazza in Caserma; la fase d’impeto dell’azione criminosa; la colluttazione e l’impatto con la porta del bagno interno all’alloggio; 4) la fase del soffocamento e la successiva fase del confezionamento del corpo e del trasporto dello stesso a Fonte Cupa; 5) la fase del depistaggio dell’indagine.

L’appellante Ministero censura anche la mancata affermazione di responsabilita dell’imputato QUATRALE Vincenzo, criticando la sostanziale complessiva veridicità dell’ordine di servizio del 1° giugno 2001, ritenuta dalla Corte di Cassino, attraverso la descrizione delle attività realmente svolte quella mattina dai Militari Quatrale e Tuzi.

L’Avvocatura dello Stato lamenta, infine, la mancata affermazione della responsabilità dell’imputato SUPRANO per li delitto di favoreggiamento.

L’appellante Consuelo Mollicone – nella qualità di sorella della vittima – si duole della mancata affermazione, ai fini della responsabilità civile, della colpevolezza degli imputati accusati dei reati di cui al capo A) e al capo B) ( c o n l ‘ e s c l u s i o n e , q u i n d i , di S u p r a n o ) , i l l u s t r a n d o la c o n t r a d d i t t o r i e t à , l’erroneità e l’illogicità della motivazione in ordine ai seguenti temi: 1) la valutazione della “attendibilità” di Santino Tuzi e dell’assenza di riscontri testimoniali circa l’ingresso di Serena in caserma li 1° giugno 2001;

2) la valutazione dei “depistaggi” riguardanti l’annotazione di servizio del 27 giugno 2001 del Maresciallo Mottola, la mancata verbalizzazione a sommarie informazioni testimoniali di Carmine Belli e Simonetta Bianchi li 2 giugno 2001, e li ritrovamento del telefono di Serena;

3) la valutazione dei rapporti fra Serena Mollicone e Marco Mottola, con particolare riferimento alla personalità dell’imputato e al tentativo, fallito, di alibi;

4) la valutazione delle risultanze istruttorie in ordine alle consulenze tecniche acquisite nel corso del giudizio di primo grado;

5) la valutazione (o, per meglio dire, l’omessa valutazione) di alcune circostanze emerse nel corso dell’esame degli imputati Mottola Marco e Mottola Annamaria e delle dichiarazioni spontanee di Mottola Franco;

6) la valutazione dell’ordine di servizio del 1° giugno 2001 e dell’esame dell’imputato Quatrale;

7) la valutazione del movente dell’omicidio. Consuelo Mollicone ha proposto altro atto d’appello, nella qualità di unica erede di Guglielmo Mollicone, defunto padre della vittima.

L’atto di impugnazione prende le mosse dalle dichiarazioni del Brigadiere Tuzi, dai riscontri relativi e dalle valutazioni formulate al riguardo dalla Corte, soffermandosi sull’ordinanza di non ammissione della deposizione del Maresciallo Tersigni (che viene impugnata); affronta, poi, li tema della valutazione delle prove tecniche e scientifiche; e critica la valutazione complessiva delle prove e degli indizi compiuta dal Giudice di primo grado, offrendo una ricostruzione completamente diversa della vicenda.

La richiesta conclusiva è quella di riformare integralmente la sentenza impugnata, richiesta accompagnata dall’invito a rinnovare parzialmente l’istruzione dibattimentale attraverso l’audizione del Maresciallo Tersigni, l’espletamento di un confronto tra le testimoni Anna Rita Torriero e Sonia Da Fonseca, e l’esame delle persone indicate dal Dott. Ferrauti (responsabile del SERT di Frosinone, li quale ebbe, pochi giorni dopo la morte di Serena, uno scambio di battute con alcuni soggetti tossicodipendenti originari di Ferentino nella sala d’aspetto dell’ambulatorio di quel servizio).

L’atto di appello proposto nell’interesse di Antonio Mollicone, zio della vittima, è stato redatto dall’Avvocato che ha sottoscritto l’atto di impugnazione da ultimo illustrato, e contiene censure e richieste analoghe a quelle appena sintetizzate.

Ha proposto appello anche Armida Mollicone, zia di Serena, chiedendo la riforma della sentenza, ritenuta erronea nella valutazione degli elementi di prova, a partire dalle dichiarazioni degli imputati, da quelle del Brigadiere Tuzi (la cui attendibilità avrebbe dovuto e s s e r e vagliata anche alla luce della conversazione telefonica intercorsa con la Signora Torriero), dagli esiti delle consulenze tecniche e dalla mancata considerazione di alcune prove documentali.

Nell’interesse della stessa congiunta della vittima, l’Avv. Nardoni ha depositato u n a memoria integrativa, da valere anche come motivi aggiunti, approfondendo li tema dell’impatto della vittima con la porta presente nello stabile della caserma, e chiedendo l’acquisizione di una integrazione della relazione della Prof.ssa Regimenti e l’audizione della stessa sul punto della misurazione del corpo della ragazza.

Gli appellanti Maria Tuzi e Fabio Tuzi hanno posto l’accento sulla sussistenza del reato di istigazione al suicidio, attribuito all’imputato QUATRALE, di cui hanno chiesto, previo accertamento della colpevolezza, l’affermazione della responsabilità civile, con condanna conseguente al risarcimento dei danni.

L’imputato Francesco SUPRANO ha depositato una memoria, con la quale ha rilevato, preliminarmente, l’inammissibilità dell’appello proposto dalla Procura nei suoi confronti, ha, poi, riproposto le eccezioni processuali proposte nel primo giudizio, e ha, infine, svolto argomentazioni, ni fatto e ni diritto, a sostegno dell’insussistenza del delitto di favoreggiamento a lui contestato.

Le attività svolte nel dibattimento dinanzi a questa Corte.

Le parti sono state tutte regolarmente citate per l’udienza del 26 ottobre 2023, nel corso della quale li Presidente ha fatto la relazione, invitando poi le parti a discutere sulla richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, già formulata in molti degli appelli e “ampliata” dalla Procura generale attraverso l’indicazione di alcune decine di testimoni e la precisazione dell’oggetto della deposizione.

Questa Corte, sentite le parti, ha emesso un’ordinanza, che è stata allegata al verbale d’udienza, con la quale ha posto l’accento sul comma 3 bis dell’art. 603 c.p.p., che, per chiarezza espositiva, qui di seguito si trascrive: “Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice, ferme le disposizioni di cui ai commi da 1 a 3, dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nei soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio dibattimentale di primo grado o all’esito di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato a norma degli articoli 438, comma 5, e 441, comma 5.”

Con la stessa ordinanza, la Corte ha ritenuto opportuno sentire per primi i “testimoni esper

ti”

,’ e, cioè, i consulenti dell’accusa, pubblica e privata, e della difesa.

All’udienza successiva (20 novembre 2023), sono stati esaminati i consulenti tecnici del P.M. Cristina Cattaneo, Remo Sala ed Emiliano Ernesto D’Aloja.

Il 7 dicembre 2023, è avvenuta l’audizione di Rosario Casamassima, Vittorio Della Guardia e Cesare Rapone, tutti in servizio presso li R.I.S. di Roma, e di Ferdinando Scatamacchia, già addetto al laboratorio di Microscopia elettronica del R.I.S., attualmente in servizio presso l’Istituto superiore di tecniche investigative di Velletri.

All’udienza del 14 dicembre è stata sentita, in videocollegamento con l’Australia, la dottoressa Paola Magni. E stata, poi, la volta del dottor Giorgio Bolino; si è, quindi, svolto un confronto tra quest’ultimo e la dottoressa Cattaneo.

L’udienza del 21 dicembre 2023 è stata dedicata all’escussione della consulente del P.M. Elena Pilli, docente di biologia.

Nella prima seduta di quest’anno (24 gennaio 2024), sono stati sentiti li consulente della Difesa, dott. Saverio Potenza, e i consulenti della parte civile Antonio Mollicone, generale Luciano Garofano, e della parte civile Armida Mollicone, dottoressa Roberta Bruzzone.

Altre due consulenti – la dottoressa Laura Volpini, per la parte civile Antonio Mollicone, e la dottoressa Luisa Reggimenti, per la parte civile Armida Mollicone – sono state escusse li 30 gennaio 2024; in tale udienza sono state anche ascoltate le testimoni Maria Lucia Di Pastena e Laura Patriarca. All’udienza del 6 febbraio sono stati escussi Fabio Tuzi, Maria Tuzi e Renato Rea; questi ultimi due sono stati messi a confronto. Sono stati, di seguito, sentiti li Luogotenente in congedo Gabriele Tersigni e li Colonnello in congedo Pietro Caprio.

L’udienza del 12 febbraio 2024 è stata dedicata all’audizione dei consulenti degli imputati Mottola, Carmelo Lavorino, Enrico Deli Compagni e Cosmo Di Mille. Si è anche proceduto al confronto tra i consulenti tecnici Sala, Lavorino, Di Mille e Casamassima.

Altro confronto, fra gli stessi consulenti e l’esperto Gaetano Bonaventura, si è svolto alla successiva udienza, quella del 22 febbraio, nel corso della quale è stata anche sentita Consuelo Mollicone, sorella della vittima.

Il 14 marzo 2024 è avvenuta l’escussione dei

testimoni Emilio Cuomo,

Pasquale Simone, Antonio Mollicone e Marco Sperati.

All’udienza del 22 marzo 2024 è stata sentita la teste Sonia Da Fonseca.

Nella successiva udienza (26 marzo 2024), sono stati escussi Annarita Torriero, Massimiliano Gemma e Rosa Mirarchi.

All’udienza del 9 aprile2024, è avvenuta l’audizione del Luogotenente Gaetano Evangelista e dell’Appuntato (ora in congedo) Ernesto Venticinque. Una settimana dopo, sono stati escussi i testi Domenico Cacciarella, Claudio Lancia, Tommaso Fraioli e Massimo Polletta.

lI 19 aprile sono stati sentiti Bernardo Belli, Salvatore Fraioli, Antonio Fraioli, Maria Pia Fraioli e Laura Ricci.

lI 16 maggio 2024 è stata la volta dei testimoni Carmine Belli (già imputato dell’omicidio di Serena Mollicone, e assolto con sentenza divenuta irrevocabile nel 2006), Pier Paolo Tomaselli, Simonetta Bianchi e Ramon lommi.

Nell’ultima udienza dedicata all’istruzione dibattimentale,quella del 23 maggio 2024, sono stati sentiti Luigi Germani, Danilo Tomaselli, Giuseppe D’Ammasso e Marco Malnati.

In quasi tutte le udienze, le parti hanno depositato atti e documenti.

In prossimità della discussione finale, i rappresentanti della Pubblica Accusa e i Difensori degli imputati Mottola hanno depositato memorie in cui sono state compendiate le rispettive ragioni anche alla luce degli esiti della (parziale, ma imponente) rinnovazione dibattimentale.

Occorre dare atto che la Procura Generale ha modificato alcune delle richieste

formulate nell’atto di appello dalla Procura della Repubblica presso li Tribunale di Cassino.

In particolare, con riferimento al concorso omissivo nell’omicidio, attribuito a Vincenzo Quatrale (e al defunto Santino Tuzi) – capo B) della rubrica – ha chiesto l’assoluzione del Quatrale perché li fatto non costituisce reato, poichè “manca la prova certa della consapevolezza, in capo ai due militari, delle lesioni subite da Serena e della loro gravità e dunque del presupposto da cui derivava il loro obbligo di intervenire in soccorso di una persona in pericolo di vita. Ne consegue la carenza dell’elemento soggettivo del reato contestato” (pag. 174, memoria conclusiva del 21 giugno 2024).

Quanto al capo C) di imputazione, altra accusa mossa a Quatrale, la Pubblica Accusa ha osservato che “non si ritiene raggiunta la prova della sussistenza della condotta di istigazione a l suicidio, quanto quella d i ‘auto favoreggiamento’, in relazione al tentativo di indurre il Brig. Tuzi a ritrattare le dichiarazioni rese in data 28/03/2008, con conseguente insussistenza della fattispecie contestata.” (ibid., pag. 175).

La Procura Generale ha chiesto, poi, li proscioglimento di Francesco Suprano per intervenuta prescrizione del reato di favoreggiamento personale aggravato a lui ascritto al capo D).

Peraltro, avendo li Suprano rinunciato alla prescrizione, l’appellante ha chiesto,

nelle conclusioni rassegnate nel corso della discussione finale, la condanna dell’imputato alla pena di quattro anni di reclusione.

Disamina degli argomenti contenuti negli atti d’appello. Valutazione degli esiti

delle istruzioni dibattimentali. Esposizione delle ragioni a fondamento della decisione.

L’appellante Procura della Repubblica esordisce – dopo una breve premessa sull’iter delle indagini – con le critiche, diffuse e articolate, alla valutazione, compiuta dalla Corte cassinate, di inattendibilità delle dichiarazioni rese dal Brigadiere Santino Tuzi.

È bene precisare che tali dichiarazioni sono contenute ni due verbali (e ni parziali registrazioni), redatti nelle giornate del 28 marzo 2008 e del 9 aprile 2008, e acquisiti al fascicolo processuale, ex art. 512 c.p.p., essendosene verificata, a causa della morte del dichiarante due giorni dopo la seconda audizione, l’impossibilità della ripetizione.

Ovviamente, si tratta di un inevitabile vulnus ai principi dell’oralità e del contraddittorio, anche se non c’è alcun dubbio che da tali atti si possano comunque trarre elementi probatori in grado di determinare li convincimento del giudicante.

Tuttavia, la valutazione del contenuto di tali atti deve essere svolta con particolarerigore, perché, pur non potendosi dubitare della correttezza dei soggetti (P.M. e Polizia giudiziaria) che hanno raccolto le sommarie informazioni testimoniali, occorre verificare li contesto ambientale e procedurale in cui gli atti sono stati svolti.

Al riguardo, non possono liquidarsi come prive di fondamento alcune delle osservazioni critiche mosse dalla prima Corte all’intrinseca valenza delle

dichiarazioni, di cui si lamenta l’appellante a pag. 26 dell’atto di impugnazione: “Stride innanzitutto l’estrema sinteticità e nettezza del verbale riassuntivo di

sommarie informazioni a fronte di oltre 7 ore di esame;

la parte di dichiarazioni di Tuzi oggetto di registrazione comprende un momento particolarmente delicato dell’assunzione delle

sommarie informazioni, che è quello della verbalizzazione; tale fase risulta di particolare interesse, anche considerato il fatto che Tuzi nel corso della registrazione esprime spesso in modo chiaro la sua contrarietà per lo stesso tenore della verbalizzazione, tenore sul quale i medesimi militari verbalizzanti manifestano perplessità e difficoltà; assume poi particolare rilevanza il fatto che all’assunzione di tali s.i.t., come emerge dal verbale riassuntivo, abbiano partecipato colleghi del Tuzi e suoi superiori gerarchici, tra i quali in specie il m.llo Evangelista, nei cui confronti il brigadiere aveva delle controversie personali e legali già maturate da tempo;” (pagine 116 e 117 della sentenza). Queste, che sembrano mere asserzioni, intrise soltanto di sospetti e richiami a vaghe suggestioni incidenti sulla genuinità e la veridicità delle dichiarazioni, sono ni realtà puntellate, nel corpo motivazionale, da considerazioni di carattere logico e dalla menzione di brandelli di risposte, significativi non solo di imprecisioni (e di circostanze smentite da altri testi), ma anche di un clima di potenziale condizionamento.

E non può qualificarsi “motivazione davvero bizzarra” (pag. 27 dell’atto d’appello) quella che sottolinea, attraverso concreti riferimenti, le differenze tra li “detto” e li “verbalizzato”

Senza soffermarsi sulle stranezze relative alla registrazione delle dichiarazioni del 28 marzo 2008 (si rimanda alla lettura delle pagine 115 e 116 della sentenza), questa Corte condivide il rilievo circa la discrepanza (o, se si preferisce, la non coincidenza) tra registrazione e verbalizzazione riassuntiva, contenuto nella pagina 117 della sentenza: “Effettivamente dall’ascolto della registrazione in esame, a fronte della nettezza delle dichiarazioni rese dal Brig. Tuzi, come riportate nel verbale riassuntivo sopra riversato, di diverso e assai più dubbio tenore appaiono le sue vive parole, emergendo un Tuzi incerto, che non ricorda, e soprattutto un Tuzi che, a fronte della confusione dei suoi ricordi, tenta in qualche modo di accomodare le sue dichiarazioni a quelle degli altri, tanto da arrivare a contraddirsi e a non riuscire ad esprimere con forza il suo pensiero.”.

E rileva che li “distacco” tra i dialoghi, protrattisi per alcune ore, tra Tuzi e i vari interroganti e lo scarno contenuto del verbale riassuntivo costituisce un problema non risibile, se si pensa che nelle 64 pagine di trascrizione della conversazione, compiuta dal Luogotenente Guarcini attraverso l’ascolto del file audio “01 DDS TDK DC4-90 Tuzi Santino 28.3.08 wav”

, compare oltre 450 volte l’aggettivo “incomprensibile” e 150 volte l’espressione “si accavallano più voci”.

La Corte di Cassino ha motivato le sue perplessità in ordine ai tre principali argomenti oggetto delle informazioni richieste al Brigadiere Tuzi: le contraddizioni e incongruenze dell’ordine di servizio; l’ingresso di Serena in caserma la mattina dell’1.6.2001; li servizio consorziato svolto da Tuzi 11.6.2001 con l’App. Emilio Cuomo.

Per chiarezza espositiva è opportuno riportare li paragrafo relativo al primo argomento:

“In ordine a tale argomento deve essere innanzitutto evidenziato come, fin dall’inizio della registrazione in esame, vengano formulate dagli interroganti le domande a Tuzi dando per già accertata la falsità di gran parte dell’o.d.s. n. 1 del 1.6.2001 e chiedendogliene ragione; falsità – lo si è visto – oggi in gran parte contraddetta dagli odierni esiti dibattimentali, come sopra riportati. Ciò nonostante, in più occasioni il Brigadiere sostiene che il servizio esterno è stato fatto, in particolare con riferimento al sopralluogo a Colfelice e all’invito in caserma a Renzi. A pag. 10 delle trascrizioni viene affermato con forza dal P.M. presente all’esame che il sopralluogo a Colfelice non era stato fatto, chiedendo spiegazioni al militare e soprattutto non dandogli la possibilità di dare una versione alternativa dei fatti, nonostante il medesimo tentasse di farlo. Sul punto a pag. 30 delle trascrizioni Tuzi ritorna spontaneamente su tale argomento e dichiara di essere certo di essere passato a Colfelice e di essere sicuro degli orari inseriti dal M.lo Quatrale, specificando: perché ‘ci teneva’ e ‘non sbagliava’. Il medesimo di fronte alle contestazioni degli interroganti tenta di ricostruire i fatti non per viva memoria degli stessi, ma per deduzioni, facendo riferimento alle abitudini e alle modalità di espletamento del servizio in quel periodo. In tutto il corso dell’interrogatorio Tuzi si mostra talmente insicuro da tentare di fare lui le domande ai verbalizzanti per orientarsi nei ricordi.

Ciò nonostante nel verbale di sommarie informazioni tali titubanze e ricostruzioni divergenti del Tuzi, in particolare in ordine al sopralluogo a Colfelice e agli orari inseriti da Quatrale, non sono in alcun modo riportate ed è verbalizzato come se il medesimo Tuzi avesse dichiarato con certezza che lui e il Mar. Quatrale, dopo essere rientrati alle 8,30 per aprire la caserma, fossero rimasti in caserma tutta la mattinata.”

A tali riflessioni – che questa Corte fa proprie – occorre aggiungere che dall’istruzione dibattimentale svolta in questo grado d’appello non sono emersi elementi certi in grado di supportare la tesi della falsità dell’ordine di servizio, a scapito dell’ipotesi di irregolarità dell’atto e di pasticciate, imprecise e maldestre annotazioni nei fogli in cui doveva darsi atto delle attività svolte dai due militari. In altri termini, l’audizione delle persone in grado di fornire informazioni sul punto non ha sciolto i dubbi correttamente coltivati dal primo Giudice

Incidentalmente, se è vero che gli interroganti nutrivano – già li 28 marzo 2008 – la convinzione che l’ordine di servizio fosse falso, ciò avrebbe dovuto indurre gli inquirenti a porsi il problema della potenziale applicazione dell’art. 63 c.p.p. (del primo comma, e non del capoverso, dovendosi dare atto che le clamorose rivelazioni del Tuzi sono intervenute in maniera per molti versi inaspettata nel corso della deposizione).

Questo è un problema che si pone, ni modo ancor più significativo e dirompente, per quanto concerne l’oggetto centrale delle dichiarazioni del Brigadiere, e, cioè, la rivelazione dell’ingresso in caserma della povera Serena.

Su tale oggetto la Corte ha svolto una serie di riflessioni contenenti dubbi e perplessità sull’attendibilità del Brigadiere Tuzi (pagine da 118 a 126 della sentenza impugnata).

Riflessioni che non sono state efficacemente contrastate dall’appellante

Procura attraverso le considerazioni contenute a pag. 25 e ss. dell’atto di impugnazione.

Anzi, li P.M. per due volte sostiene una tesi che finisce per accrescere idubbi sulla

credibilità della persona informata e sul disinteresse delle relative dichiarazioni.

Si legge – non senza una coerenza logica con la conversazione telefonica intercorsa tra Anna Rita Torriero e li Brigadiere in attesa di essere sentito – a pag. 27 dell’atto di appello: “Pertanto, molto rilievo ha il suddetto ‘bluff del colonnello Caprio, perché si ricollega logicamente all’intercettazione ‘delle manette’: infatti, mentre aspettava di essere sentito, parlando con la Torriero, Tuzi era evidentemente preoccupato di essere arrestato per qualcosa che sapeva circa l’omicidio di Serena, per aver quindi omesso di riferirlo e quando viene a sapere dal colonnello che i R/S hanno trovato qualcosa nell’appartamento a trattativa privata (e proprio in quello!!), la sua paura prende corpo, perché ritiene che ci sia un riscontro all’ingresso di Serena in caserma, ed allora dice quello che fino a quel momento aveva omesso, che non può non essere che un suo ricordo personale e non suggestione di altri. Il suo non è certo un improvviso scrupolo morale, ma il brigadiere è mosso dall’intento di evitare di andare a giudizio per favoreggiamento! Del resto, se li brigadiere non avesse saputo niente dell’omicidio, non sarebbe• stato preoccupato, ed il ‘bluff’ di Caprio gli sarebbe stato indifferente. La Corte incredibilmente omette di valutare questa circostanza ed illogiche appaiono le sue valutazioni sull’inattendibilità di Tuzi.”.

E ancora: “. . . d a t e le asserite minacce ricevute da Evangelista perché sospettava che lui fosse a conoscenza di fatti relativi all’omicidio della

Mollicone, quale occasione migliore di quella per sconfessarlo e dire con forza una volta e per sempre, davanti ai suoi superiori, che lui invece niente sapeva e Evangelista si era sbagliato? Ma invece Tuzi non coglie l’occasione, anzi dà implicitamente ragione ad Evangelista, evidentemente solo perché, come sopra detto, si è trovato nella necessità di evitare un male ben più grande, cioè di essere imputato del silenzio tenuto per ben sette anni e quindi di favoreggiamento!”. (ibid., pag. 33).

La stessa Pubblica Accusa conferma che, nel corso dell’escussione, stavano emergendo indizi a carico del dichiarante per li delitto di favoreggiamento, già protrattosi per quasi sette anni. E – aggiunge questa Corte – si stava delineando una responsabilità per li reato di falsità in atti (con riferimento all’ordine di servizio n. 1 del 1° giugno 2001) e una potenziale incriminazione p e r concorso nel delitto di omicidio (almeno nella forma omissiva, poi effettivamente – e virtualmente – ipotizzata a carico di Tuzi in concorso con Quatrale).

La proseguita audizione del 28 marzo 2008 (e, a maggior ragione, quella avvenuta li 9 aprile 2008) del Brigadiere Tuzi quale persona informata non

pone certo problemi di inutilizzabilità erga alios, ma interroga li giudicante sulla valenza dimostrativa di dichiarazioni rese da una persona in minorate condizioni di lucidità, serenità e freddezza, con la comprensibile tentazione di riferire fatti e circostanze in maniera tale da allontanare lo spettro di un pericoloso coinvolgimento giudiziario nella vicenda.

Su alcuni particolari non secondari (come le fattezze e l’abbigliamento della ragazza vista entrare, l’orario di ingresso, le modalità e la durata dell’avvistamento, ecc.) ci sono stati ripetuti riferimenti, spesso in contrasto tra loro.

Si consideri, ad esempio, la prima dichiarazione (così come risultante dal verbale riassuntivo del 28 marzo 2001) relativa all’ingresso di Serena in caserma: “D: Lei ha visto Serena Mollicone la mattina del 01.06.01? R: credo di sì. D: Dove? R: Entrare in caserma ad Arce. D: Perché crede di si? R: Perché la mattina del 01.06.01, mentre mi trovavo in caserma, ho ricevuto una chiamata interna dal telefono dell’alloggio di servizio del maresciallo Mottola, verso le ore 11.00/11.30 con la quale mi si chiedeva di aprire il cancello pedonale esterno in quanto doveva entrare una persona. Presumo che chi mi chiese di aprire il cancello fosse Marco Mottola, in quanto la voce era maschile, giovanile, non l’avevo visto uscire dalla caserma ed a quell’ora il padre non c’era perché impegnato nelle prove della festa dell’Arma a Frosinone “.

È pacificamente emerso che li Maresciallo era rientrato in caserma ben prima delle 11.00/ 11.30 (intorno alle 10/ 10 e 10; alle 10:08 è avvenuta una chiamata di pochi secondi dal telefono della caserma al telefono dell’alloggio Mottola, verosimilmente fatta dal Maresciallo appena rientrato da Frosinone): ciò fa dubitare dell’esattezza dell’orario di ingresso indicato dal dichiarante: tanto è vero che dal verbale di trascrizione dell’audizione,pag. 7, risulta che nell’immediatezza li Colonnello Caprio rammenta al dichiarante che il Maresciallo Mottola a quell’ora era già tornato in caserma…

Inoltre, se Marco non era stato visto uscire dalla caserma da Tuzi (che ivi si trovava dalle 8 e 30), è molto improbabile che li ragazzo sia stato avvistato presso li Bar “Chioppetelle” (su questo tema ci si soffermerà più avanti) qualche decina di minuti dopo, anche perché non risulta che Tuzi abbia dichiarato di averlo visto rientrare in caserma prima dell’arrivo della ragazza. Va, comunque, dato atto che Tuzi, dopo una immotivata ritrattazione, reiterata in una lunga prima parte delle dichiarazioni rese li 9 aprile 2008, ha ribadito (“ritrattando la ritrattazione”) di aver visto Serena Mollicone entrare in caserma la mattina del 1° giugno 2001.

In tali ultime, nette, dichiarazioni, il Brigadiere rettifica alcune incongruenze – precisando, ad esempio, che li Maresciallo Mottola era rientrato intorno alle ore 10 da Frosinone, e che egli aveva osservato l’ingresso di Serena sia dal monitor che dalla finestra (avendo cosi modo di vedere li colore dei vestiti indossati dalla ragazza) – e fornisce agli inquirenti un tassello rilevante per la ricostruzione della vicenda, un contributo al quale non può negarsi intrinseca attendibilità.

Peraltro, questa Corte non può fare a meno di rilevare che la stessa Procura della Repubblica appellante, nella richiesta di archiviazione avanzata nel procedimento riguardante (anche) gli imputati MOTTOLA, datata 18 febbraio 2015, nell’indicare i residui elementi a carico degli stessi, riteneva probabile, ma non certo, li fatto che Serena si fosse portata in caserma (pag. 96), osservando che “dalle dichiarazioni del brig. Tuzi Santino, dell’app. CC. Suprano Francesco, di Mirarchi Rosa e di Da Fonseca Sonia emerge la verosimile risultanza che Serena verso le ore 11,00 del 01.06.2001 s i portò nella Caserma dei CC. di Arce, proprio nell’alloggio dei Mottola” (pag. 94). Ovviamente, è compito di questo Giudice verificare se, successivamente al 2 0 1 5 , l ‘ a c c a d i m e n t o d e l l ‘ i n g r e s s o in c a s e r m a di S e r e n a s i a u s c i t o probatoriamente rafforzato dalle successive indagini e dalle risultanze dei due dibattimenti.

Lasciando per ora da parte la lettura congiunta di questo indizio con gli altri indizi rappresentati dall’accusa, pubblica e privata, occorre verificare la gravità e la precisione di tale importante “tassello” della vicenda.

Perché di indizio, e non di prova, si tratta.

L’ingresso in caserma della ragazza integra, infatti, l’elemento più importante del percorso logico argomentativo dell’ipotesi accusatoria, ma non fornisce la prova del fatto storico da accertare (l’assassinio di Serena Mollicone ad opera degli odierni imputati).

E bene, ni proposito, ricordare che “In tema di valutazione probatoria, la differenza tra prova e indizio è costituita dal fatto che mentre la prima, in quanto si ricollega direttamente al fatto storico oggetto di accertamento, è idonea ad attribuire carattere di certezza allo stesso, l’indizio, isolatamente considerato, fornisce s o l o una traccia indicativa di un percorso logico argomentativo, suscettibile di avere diversi possibili scenari, e, come tale, non può mai essere qualificato in termini di certezza con riferimento al fatto da provare.(In motivazione, la Corte ha anche precisato che la differenza tra indizio e prova non è determinata esclusivamente dal mezzo che la produce, m a dai contenuti che esprime e rappresenta, poiché, ad esempio, la testimonianza, come pure le conversazioni intercettate, avuto riguardo al loro concreto contenuto, possono integrare sia una prova piena sia un indizio). (Cass., Il, sentenza n. 14704 del 22 aprile 2020).

Le dichiarazioni delle persone diverse da Tuzi, indicate dalla Procura di Cassino a sostegno dell’ingresso della ragazza in caserma, ruotano, in realtà, intorno alle affermazioni dell’unico testimone oculare, e, cioè, lo stesso Tuzi. L’Appuntato Suprano nega una sua diretta conoscenza dell’ingresso e della presenza di Serena nella Stazione CC di Arce e, nel corso dell’audizione, quale persona informata, ni data 13 maggio 2016, racconta: “Nel 2008, qualche giorno dopo le prime dichiarazioni rilasciate da Tuzi alla magistratura, ci fu un’occasione in cui io andai alla Stazione Carabinieri di Fontana Liri in quanto ero interessato ad un mio trasferimento a quel Comando; li giunto trovai il Brig. Tuzi, all’epoca in servizio provvisorio a Fontana Liri, che stava parlando, nell’ufficio del piantone, con il C.te della stessa Stazione, Mar. Tersigni, proprio del contenuto delle proprie dichiarazioni rese al P.M.

In particolare Tuzi stava dicendo a Tersigni che aveva dichiarato di aver visto una ragazza entrare in Caserma ad Arce la mattina del 01/06/2001. Il Mar. Tersigni affermava che dalla descrizione degli abiti fattagli dal Tuzi poteva trattarsi proprio di Serena Mollicone. A quel punto il Mar. Tersigni si allontano ed io, approfittando di quella circostanza, mi rivolsi al Tuzi chiedendogli se si trattava di Serena Mollicone, come sostenuto dal Mar. Tersigni; egli frettolosamente mi rispose che non aveva detto che si trattava di Serena ma di una ragazza cercando di liquidarmi per non continuare quel discorso. Dopo di ciò lo salutai e me ne andai”.

La testimone Sonia Da Fonseca ha confermato di aver ricevuto, tra le altre, la seguente confidenza di Anna Rita Torriero: “Guarda che io quella mattina che sono andata a portare un panino e una scheda telefonica a Santino ho visto Serena in Caserma”

Lasciando da parte i dubbi sul momento in cui avvenne la confidenza e sul giorno dell’avvistamento (la Da Fonseca, al contrario della Torriero – che ha mostrato progressive incertezze sul punto – ha sempre chiaramente fatto riferimento alla mattina della scomparsa di Serena), li Brigadiere Tuzi non ha mai menzionato di aver condiviso con altre persone la percezione dell’accadimento.

Tra l’altro, se – nel racconto di Tuzi – li passaggio di Serena è durato pochi secondi ed è avvenuto senza alcuna sosta nella sala d’aspetto o in altri locali della caserma, è estremamente improbabile che la Torriero abbia visto la ragazza.

Incidentalmente, l’appellante insiste – prendendo spunto dalla telefonata intercettata mentre Tuzi attende, li 28 marzo 2008, di essere sentito, e, in particolare, dai riferimenti alle manette e a quella ragazza – sul fatto che la Torriero sapeva (pag. 54 dell’atto di appello).

lI problema è che, all’esito dei due dibattimenti è rimasto oscuro cosa esattamente la Torriero sapesse, in quanto i contorni delle confidenze ricevute da Tuzi sono rimasti sfumati.

La testimone Rosa Mirarchi ha genericamente riferito (senza precisare in quale giorno) di aver visto una ragazza in caserma, ma ha dichiarato, anche in questo dibattimento d’appello, che non si trattava di Serena Mollicone; e non ha fornito particolari precisi e rilevanti sulla pulizia dell’appartamento “a trattativa privata” e sulla rottura della porta (pagine 94 e ss. della trascrizione integrale dell’udienza del 26 marzo 2024).

Il testimone Massimiliano Gemma, dopo aver dichiarato di avere appreso dalla Torriero che quest’ultima aveva visto la ragazza in caserma (si ribadisce, peraltro, che Tuzi disse di aver assistito, lui solo, al rapido passaggio di Serena dal cancelletto esterno agli alloggi di servizio), ha finito per assecondare l’atteggiamento “ritrattatorio” della compagna, lasciando anche questa Corte nel dubbio se si sia trattato di un tentativo di emergere dalle “cattive acque” o di un “fraintendimento” tra Gemma e Torriero (v. pagine 65/67 della memoria conclusiva della Procura generale).

Una significativa conferma dichiarativa è venuta dalla testimonianza di Marco Malnati, amico, “compare” e compagno di pesca del Brigadiere Tuzi. Superando le incertezze e le sostanziali negazioni – contenute nelle precedenti dichiarazioni e nel confronto con Carlo Peruzzi – di aver ricevuto confidenze da parte di Tuzi sulla vicenda, all’udienza del 23 maggio 2024 Malnati cosi esordisce: “No, l’unica cosa che mi ha sempre detto è che aveva visto (a) Serena Mollicone entrare in caserma dopo che ha finito li servizio e non l’ha vista riuscire”

Orbene, a parte l’errato riferimento temporale (poi rettificato: Tuzi avrebbe visto Serena, anzi le avrebbe aperto li cancelletto di ingresso, nel bel mezzo del suo orario di servizio del 1° giugno), la credibilità di questo teste “de relato” non appare di livello elevato.

Se è vero che, subito dopo la morte dell’amico Santino, Malnati non era affatto convinto che questi si fosse suicidato, ma riteneva che gli avessero tappato la bocca, perché sapeva troppe cose sul caso “Mollicone”

, appare veramente strano che li teste, indignato e furibondo, non si sia precipitato dagli inquirenti a fornire un elemento cosi importante per ricostruire la tragica vicenda, e si sia tenuto dentro questo segreto per altri quindici anni.

La decisione di non rivelare quanto appreso (non si sa bene quando) dal Brigadiere Tuzi per paura di ritorsioni nei confronti dei figli, e, ni particolare della figlia ancora minorenne – in assenza di minacce esplicite, ma in forza di una sorta di clima di intimidazione – è un’ipotesi plausibile, e umanamente

comprensibile, ma è stata una scelta ni grado di incrinare l’efficacia probatoria del contributo del testimone.

La Corte ritiene opportuno riportare un altro passaggio delle dichiarazioni di Malnati sul tema della sua tardiva risoluzione di rivelare la importante confidenza di Tuzi: “Niente, vedendo le cose come sono andate, uno alla fine non si fida più di nessuno, nemmeno della giustizia”

Si potrebbe ribaltare la riflessione del testimone: le cose sono andate così, perché ci sono persone come Malnati (che è in buona, anzi cattiva, affollata, compagnia) che non hanno nemmeno cercato di fidarsi della giustizia, ma l’hanno lasciata languire, preferendo esercitare ol “ius murmurandi” in paese o facendo rivelazioni (spesso “depistanti”) agli inviati di trasmissioni televisive di

cronaca nera.

Nessun contributo dimostrativo proviene, poi, dal contenuto della conversazione ambientale nell’autovettura del Maresciallo Quatrale tra questi e Tuzi, oggetto di attività intercettiva, più volte definita – non a torto – inopportuna dal P.M. appellante, e sulla quale ci si soffermerà ni occasione dell’esame del capo C) di imputazione (istigazione al suicidio).

Nessun apporto decisivo avrebbe potuto dare la testimonianza – non ammessa da questa Corte, al pari del Collegio cassinate – del Maresciallo Tersigni in merito alle confidenze ricevute da Tuzi nelle ore successive alle due audizioni (28 marzo e 9 aprile) del Brigadiere quale persona informata.

Nel confermare le considerazioni, in fatto e in diritto, svolte dalle due Corti, occorre rammentare che li resoconto di Tuzi al Comandante della Stazione (che ha “giurisdizione” sul luogo – Fonte Cupa – di ritrovamento del cadavere) in cui prestava servizio non è equiparabile a una chiacchierata al Bar tra amici. Del resto, se li racconto di Tuzi fosse consistito in una (necessariamente sintetica) riproposizione di quanto – faticosamente – riferito agli inquirenti, la deposizione di Tersigni sul punto non avrebbe avuto particolare importanza.

Se, viceversa, Tuzi avesse aggiunto particolari inediti e rilevanti, sarebbe stato obbligo del Maresciallo Tersigni pretendere che li Brigadiere rendesse nuove dichiarazioni dinanzi alla Polizia giudiziaria e/o ai P.M. che stavano svolgendo le indagini.

Un “suggestivo ulteriore riscontro, sia pure soltanto indiretto, a quanto riferito da TuziTM sarebbe costituito

dalla deposizione del teste Ferrauti, dirigente/responsabile del SERT di Frosinone, i cui più significativi passaggi la Difesa degli appellanti Consuelo Mollicone (quale erede di Guglielmo) e Antonio Mollicone ha riportato alle pagine 28 e 29 dei due atti di impugnazione: “lo non ero a conoscenza degli eventi del 1° giugno . . . relativi all’omicidio . . . il giorno dopo che la cosa si seppe . . . c’era un gruppo di tossicodipendenti che stava(no) parlando tra loro . . . all’ingresso della sala d’aspetto del SERT di Frosinone . . . si staccarono un paio da questo gruppetto … e mi dissero, quando io gli chiesi: chi ha ucciso questa ragazza’, mi dissero il figlio del M.llo dei C di Arce … l’ha uccisa perché lo voleva sputtanare e perché gli avrebbe rovinato la piazza e i clienti buoni’ . era il gruppo stesso ben conosciuto alle forze dell’ordine, che erano i consumatori di un paese che si chiama Ferentino”

Ma è la stessa Difesa appellante a precisare – dopo aver osservato che la Corte di Cassino avrebbe dovuto considerare tale circostanza e valutarla, attesa l’ammissibilità della su menzionata deposizione – che “nel giudizio di primo grado, è stata tentata la citazione di tali testi, ma gli stessi sono risultati deceduti”.

Di conseguenza, è difficile annettere rilevanza probatoria a circostanze scaturenti da confidenze ricevute da soggetti di cui è impossibile stabilire la aldiposazione fali eperaveal eogie ivo corienti on pianite, e- ati 194 е 195 с.р.р.).

Comunque, pur con i margini di incertezza circa li valore dimostrativo, l’attendibilità e la credibilità delle dichiarazioni di Tuzi e dei testi “de relato”, non può negarsi la gravità dell’indizio costituito dall’avvistamento di Serena mentre fa ingresso ni caserma nel corso della mattina del 1° giugno 2001, pur non potendosi tenere in completo non cale la serie di avvistamenti – ritenuti per varie, ma non decisive, ragioni inattendibili – di Serena in luoghi e orari incompatibili con l’ipotizzato ingresso in caserma (dichiarazioni di Elvira Mollicone, Valentina Cianchetti, Loredana Spalvieri, Vilfredo Antonini)

A “puntellare” la gravità dell’indizio concorrono le riflessioni che tutti gli appellanti “privati” hanno svolto nei rispettivi atti di impugnazione, riflessioni non tutte sovrapponibili a quelle, analitiche e diffuse, dell’appellante “pubblico”: si rimanda alla lettura delle pagine 12 e seguenti dell’appello dei Sig.ri Tuzi, delle pagine 17 e seguenti dell’appello del Ministero della Difesa, delle pagine 16 e seguenti dell’appello della Sig.ra Armida Mollicone, delle pagine 5 e seguenti dell’appello della Sig.ra Consuelo Mollicone (quale erede del padre Guglielmo), delle pagine 3 e seguenti dell’appello della Sig.ra Consuelo Mollicone (quale erede e prossima congiunta di Serena), delle pagine 4 e seguenti dell’appello del Sig. Antonio Mollicone.

Sul terzo argomento – li cui punto centrale e rilevante è li servizio consorziato s

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v e,le 23 del 1° giugno 2001 alle 5 del mattino successivo dal V. d

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Brigadiere Tuzi e dall’App. Cuomo – li contributo di Tuzi è veramente ir

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perché egli non conferma affatto, neanche dopo l’estemporaneo confronto avvenuto nella notte tra li 28 e li 29 marzo 2008, li particolare dell’avvistamento, da parte di Cuomo, del rientro in caserma del Maresciallo Mottola e della moglie Anna Maria a bordo dell’autovettura privata del primo. Tuzi si limita confusamente ad assecondare l’ipotesi che ciò possa essere avvenuto (si vedano, al riguardo, le trascrizioni integrali delle sommarie informazioni rese li 28 marzo 2008).

La Corte diCassino non trascura la potenziale rilevanza di tale avvistamento, perché, nell’ottica accusatoria, gli imputati sarebbero tornati a casa (l’alloggio era all’interno della caserma) dopo avere trasportato e occultato li cadavere della povera ragazza.

Ma enuncia (pagine 106 e seguenti della sentenza) gli elementi, tecnici (in particolare, i contatti telefonici tra li Maresciallo Mottola e Tuzi, e tra lo stesso Maresciallo e Guglielmo Mollicone) e dichiarativi (la deposizione di Antonio Mollicone) in grado di incrinare la certezza delle circostanze contenute nella testimonianza dell’Appuntato Cuomo.

L’appellante Procura invita (pag. 35 dell’atto di appello) a non sottilizzare sull’orario dell’avvistamento in origine indicato dal testimone (che in dichiarazioni successive afferma di non avere certezze sull’orario) e minimizza le incertezze di Tuzi nel confermare (genericamente) quanto riferito da Cuomo.

In realtà, non sembra operazione corretta spostare l’orario con la finalità di evitare la contraddizione con gli altri elementi dimostrativi, anche perché l’orario è un fattore decisivo per verificare la bontà dell’ipotesi accusatoria circa li trasferimento del cadavere dalla caserma al luogo del rinvenimento, anche sotto li profilo dei tempi tecnici necessari per realizzare l’atto criminoso. Ascoltando, poi, le risposte di Tuzi – come ha correttamente fatto la Corte di primo grado – si evince che la cosiddetta conferma da parte di Tuzi delle dichiarazioni di Cuomo, è priva di un oggetto definito e particolareggiato, per cui è difficile affermare che anche Tuzi abbia avvistato li Maresciallo e la

moglie rientrare in caserma.

Da ultimo, non è senza motivo la circostanza che la Procura generale, nella memoria conclusiva del 21 giugno 2024, non faccia alcun cenno all’avvistamento da parte dell’App. Cuomo della Lancia K con a bordo gli imputati Franco e Anna Maria Mottola.

A sostegno dell’intrinseca attendibilità di Santino Tuzi, li P.M. appellante dedica molte pagine alla dimostrazione della falsità dell’ordine di servizio n. 1 del 1° giugno 2001.

È opportuno riportare l’incipit di tale dissertazione: “Sostiene questa Accusa che l’Ordine di Servizio n. 1 del 01/06/2001, nella parte in cui attesta che dalle ore 1 alle ore 13:30 gli operanti Quatrale e Tuzi sono usciti di servizio esterno, è ideologicamente falso, ni quanto, come dichiarato da Tuzi li 28/03/2008, in realtà dalle 11:00 non sono più usciti e quindi sono rimasti in caserma perché il m.llo Mottola, rientrato dalle prove della festa dell’Arma alle ore 10 circa, che avrebbe dovuto sostituirli nel piantone in caserma, non è più sceso dal suo alloggio, perché dopo il colpo inferto dal figlio Marco a Serena Mollicone nell’alloggio a trattativa privata, era impegnato a decidere li da farsi e predisporre il confezionamento del corpo della vittima, che morì, dopo un periodo di agonia non quantificato, perché soffocata dal nastro adesivo che le ostruì le vie aeree.” (pag. 5 dell’atto di appello).

Senza soffermarsi (se ne parlerà in seguito) sulla seconda parte della tesi accusatoria (quella relativa alla condotta del Maresciallo e ai suoi progetti criminosi) – che sembra la sceneggiatura di un film (purtroppo, qui dobbiamo confrontarci con una tragica vicenda, realmente accaduta), e non li risultato della lettura di dati probatori acquisiti in questo processo – è onere di questa Corte verificare se li primo Giudice abbia correttamente valutato se l’ordine di servizio in questione sia o meno rappresentativo – e in che misura – delle attività di servizio svolte dal Maresciallo Quatrale e dal Brigadiere Tuzi.

Anche ni questo caso, più che sulle dichiarazioni rese ni dibattimento da ufficiali e sottufficiali dell’Arma (Gaetano Evangelista, Fabio Imbratta, Pietro Caprio, Massimo Polletta, dichiarazioni basate sulle prassi e sull’id quod plerumque accidit), li giudizio di falsità ideologica è fondato dall’appellante su quanto dichiarato da Tuzi nella prima audizione, quella del 28 marzo 2008: la pattuglia composta dal Brigadiere Tuzi e dal Maresciallo Quatrale era rimasta in caserma dalle 1 alle 13,30 per garantire l’apertura al pubblico, perché li Comandante non era più sceso nel suo ufficio, ma era rimasto nel suo alloggio.

Questa Corte ritiene, anzitutto, che il posizionamento del Maresciallo nell’alloggio piuttosto che nell’ufficio si colloca nel campo delle deduzioni o, meglio, delle illazioni, perché, se Tuzi ni quelle due ore e mezzo ha svolto li ruolo di piantone, non si era certo preoccupato di verificare la continua presenza del suo Comandante sul posto di lavoro.

Osserva, poi, questo Collegio che non può annettersi particolare rilevanza né alle numerose discrasie risultanti dall’ordine di servizio e quasi tutte manoscritte direttamente dal m.llo Quatrale né alle differenti versioni fornite dal

m.llo Quatrale sul servizio svolto dalle 11 in poi, in sede di esame rispetto alle indagini preliminari.

lI tempo trascorso da quel famigerato 1° giugno 2001 e tra una dichiarazione e l’altra può incidere sull’esattezza dei ricordi; e ciò vale per li Maresciallo Quatrale come per tutte le altre persone con le quali i militari sono venuti (o avrebbero dovuto venire) in contatto quella mattina.

Non va dimenticato che tali persone – da quelle destinatarie di notificazioni a quelle (che sarebbero state) controllate alla guida di veicoli, sentite a distanza di endo, al epoca delaudizione, od cancelate dal memoari guan sotania dettagli (orario, modalità, luogo dell’incontro con i Carabinieri), ma addirittura lo stesso evento.

Occorre dare atto che li P.M. e i Difensori delle parti civili, anche attraverso li lungo esame (protrattosi per quasi due udienze del dibattimento di primo grado, quelle del 29 aprile e del 6 maggio 2022) dell’imputato Quatrale, hanno fatto emergere incongruenze e contraddizioni, per cui l’ipotesi della falsità dell’ordine di servizio – o, per essere più precisi, di una parte di esso – non è peregrina.

Lo stesso imputato h a ammesso, ad esempio, li mancato controllo dello stabilimento “Molinari” e l’errata indicazione degli orari di alcune attività.

Ma tale ipotesi è priva di certa e incontestabile dimostrazione.

Basti pensare che l’elemento principale in grado di suffragarla, e, cioè, la dichiarazione di Tuzi circa l’assenza dalla caserma della pattuglia dalle 11/11,30 fino alle 13,30, risultante dal verbale riassuntivo del 28 marzo 2008 (con dettatura/filtro a d opera di alcuni dei Carabinieri interroganti), viene rettificata dallo stesso Brigadiere, il quale, durante l’escussione del 9 aprile successivo, afferma che, dopo l’arrivo negli uffici della caserma d e l Maresciallo Mottola proveniente dall’alloggio di servizio, lui e li Maresciallo Quatrale “uscirono in servizio”.

Per contrastare quest’ultima “verità” di Tuzi, la Procura appellante sostiene (nella memoria conclusiva: pag. 55): “Giova al riguardo rilevare che questa nuova versione sembra essere figlia dell’impegno assunto da Tuzi con Quatrale nel corso dell’anomalo confronto del giorno precedente e

dell’esigenza di salvaguardare la genuinità dell’Ordine di Servizio (e con essa l’integrità professionale del M.Ilo Quatrale)”, e, ancora: “D’altra parte, se il M.Ilo Mottola fosse sceso dal proprio alloggio 15 minuti dopo larrivo di Serena in

caserma e se Tuzi e Quatrale fossero usciti in servizio esterno

immediatamente dopo l’arrivo di Mottola, non avrebbe alcun senso l’affermazione di Tuzi in ordine alla mancata uscita di Serena dalla caserma sino al termine del suo servizio.”.

La prima proposizione appare come un’ipotesi caratterizzata da una logica non proprio stringente, e non supportata da circostanze realmente verificatesi: nell’anomalo (ma predisposto dalla Procura inquirente) confronto, Tuzi non aveva assunto alcun impegno con Quatrale.

La seconda presuppone che li giudizio di assoluta attendibilità del Brigadiere anche sull’aspetto della mancata uscita di Serena dalla caserma si sia concluso positivamente e che tale “evento negativo” sia stato percepito tra le 11/11 e 30 e le 13 e 30.

Nel verbale riassuntivo delle dichiarazioni del 9 aprile 2008 (pag. 6), si notano, proprio nel brano testualmente riportato (pag. 54) nella memoria conclusiva dalla Procura appellante, ben tre modificazioni rispetto al racconto reso 12 giorni prima: “La voce dall’altra parte del telefono era di un uomo, ma non so dire se fosse uno dei figli del M.llo Mottola o proprio quest’ultimo in quanto era tornato dalle prove per la festa dell’Arma in Frosinone . . . la ragazza era Serena Mollicone . . . rispetto all’arrivo di Serena Mollicone mi ricordo che il M.Ilo Mottola torna in ufficio proveniente dall’alloggio di servizio dopo circa un quarto d’ora da quando era arrivata Serena Mollicone; a questo punto io ed il M.Ilo Quatrale siamo usciti di servizio. Voglio precisare che fino a quando io sono rimasto in caserma, non ho visto né udito alcuno uscire dalla caserma.”. Tuzi non individua più con certezza Marco Mottola quale autore della telefonata interna; afferma di essere uscito di pattuglia con Quatrale (smentisce, quindi di essere rimasto di piantone fino alle 13 e 30); non ancora più la mancata percezione di uscita di alcuno dalla caserma al lasso temporale 11/11 e 30 – 13 e 30.

Appare, pertanto, esente da censure la conclusione espressa sul punto dal primo Giudice: “cosi ricostruiti gli esiti dibattimentali, questa Corte ritiene che la contestata falsità dell’ordine di servizio n. 1del 1.6.2001, in ordine al posto di controllo effettuato, come indicato nell’allegato A, non risulti sorretta da un adeguato compendio probatorio, essendo emersi in senso contrario molteplici elementi che inducono a propendere per la veridicità del documento in esame” (pag. 91 della sentenza impugnata).

La Procura appellante ha, quindi, affrontato li tema della valutazione, compiuta dalla Corte d’Assise di Cassino, degli esiti delle consulenze tecnico- scientifiche.

Analogamente, le Parti Civili, alcune delle quali con li supporto dei propri esperti, hanno, sia pure con minore analiticità, trattato negli atti di appello gli argomenti tecnici relativi alla vicenda che ci occupa.

Nella fase iniziale della parte dell’atto di impugnazione della Pubblica Accusa c’è un paragrafetto intitolato “Cause e mezzi della morte di Serena Mollicone”: “Per quanto riguarda le cause della morte della giovane tutti i consulenti medico legali, sia dell’accusa che della difesa che delle parti civili, compresa la d.ssa Conticelli che fu il primo medico ad intervenire sul luogo del ritrovamento e a svolgere la prima autopsia (essendo la seconda stata effettuata nel 2016 dalla professoressa Cattaneo con la riesumazione del cadavere) e le cui dichiarazioni nel processo Belli sono state acquisite, sono state concordi nel ritenere che sia dovuta all’astissia meccanica da soffocazione esterna diretta dovuta all’ostruzione delle vie aeree in soggetto che aveva riportato un trauma cranico produttivo di perdita di coscienza.”(pag. 91).

Questa condivisibile, incontestabile, riflessione è preceduta da un’aspra critica al metodo di valutazione del compendio indiziario, con particolare riferimento alle risultanze tecnico-scientifiche.

Appare opportuno, per chiarezza espositiva, riportare un ampio stralcio delle osservazioni della Pubblica Accusa.

“Dopo il sequestro dell’appartamento edella porta, avvenuto con Decreto del 6 febbraio 2016, furono conferite consulenze tecniche, tutte ex art. 360 c.p.p., alla prof. Cattaneo, all’ing. Remo Sala, ai Ris di Roma con una consulenza merceologica ed una di natura biologica, che, tutte insieme considerate nella loro progressione logica, ritiene questa Accusa abbiano dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio che quella e solo quella è la porta contro cui è stata fatta sbattere e che la Corte ha omesso di valutare secondo la loro concatenazione con una lettura unitaria e complessiva dell’intero compendio probatorio che non può prescindere dalla valutazione di ogni prova indiziaria singolarmente considerata, p e r poi valorizzarle ni una prospettiva globale tendente a porre in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo. Ritiene anzi questa Accusa che la Corte abbia applicato un ragionamento inferenziale all’incontrario, in quanto non solo ha demolito ogni singolo indizio ma ha fatto riverberare l’asserita non valenza del singolo indizio anche sugli altri, che ha ritenuto non validi proprio a causa del primo, con un effetto a cascata. Per quanto riguarda le consulenze scientifiche si ritiene che la Corte abbia altresi omesso di indicare l’iter logico per cui ha ritenuto di preferire la tesi della difesa rispetto a quella dell’accusa, producendo così una motivazione apparente o mancante.”. (pag. 90).

Questa Corte non condivide tale critica, che ritiene ingenerosa e per molti aspetti errata.

Partendo proprio da quest’ultima riflessione dell’appellante, non vi è, in realtà, su alcun argomento (compresa la vicenda della rottura della porta) una preferenza della Corte cassinate per la tesi della difesa rispetto a quella dell’accusa.

lI primo Giudice, in applicazione del canone secondo li quale onus probandi incumbit ei qui dicit – e, cioè, che è onere dell’accusa provare la fondatezza dell’ipotesi di reato e la colpevolezza degli imputati – ha doverosamente posto in rilievo gli argomenti logici e gli elementi tecnici in grado di incrinare le certezze delle ricostruzioni proposte dal P.M. e dai Patroni delle parti civili, in quei casi in cui, dalle emergenze dell’istruzione dibattimentale, era possibile formulare ipotesi alternative.

Rimanendo sul tema della rottura della porta, i consulenti della difesa hanno posto in evidenza dubbi sul fatto che la lesione alla porta in sequestro sia stata prodotta dal versante sinistro del cranio di Serena Mollicone, aggiungendo, sul piano probatorio, aspetti di problematicità che, con apprezzabile lealtà, erano già stati espressi nelle conclusioni formulate – nelle relazioni depositate e negli esami svoltisi nei due dibattimenti – dalla professoressa Cattaneo e dall’ingegner Sala.

Nella sentenza impugnata (v. pag. 195, osservazioni che si inseriscono in un iter logico e in una completa ricognizione dei pareri tecnici forniti da tutti gli esperti) si legge che gli argomenti delle consulenze tecniche ampliano notevolmente i margini di dubbio già insiti nei termini di carattere probabilistico utilizzati dai consulenti tecnici del P.M. (quest’ultimo, a pag. 101 dell’atto di appello, riporta alcuni stralci della relazione dei propri consulenti: “Per questo motivo abbiamo creato modelli 3d sia della lesione della porta che del pugno che del cranio e abbiamo analizzato la compatibilità delle aree anatomiche con il danno alla porta, a seguito di queste comparazioni si è vista la ottima compatibilità della testa, che risulta di gran lunga maggiore rispetto al pugno- pag. 232/233 della relazione- Queste indagini portano alla conclusione che tra le ipotesi prospettate come causa della lesione della porta in sequestro, quella della testa pare di gran lunga più probabile. Pertanto si può evincere che la lesione alla porta sia stata prodotta da un oggetto simile al versante sinistro del cranio di Serena Mollicone o dal suo stesso cranio- ibid. pag. 244).

,E dopo aver riportato le considerazioni della Dr.ssa Conticelli – autrice, per conto del P.M., della prima autopsia – circa l’individuazione del mezzo lesivo sul corpo di Serena (esclusione della compatibilità tra le lesioni riportate dalla ragazza e l’urto contro una superficie ampia, ” . rilevando l’assenza di altre lesioni che ni tale ipotesi si sarebbero dovute produrre, in specie sul padiglione auricolare”; va, peraltro, precisato che, nel prosieguo, tale esclusione è stata “smentita” da altri consulenti), il Collegio di primo grado ha, innanzitutto, richiamato l’opinione del Prof. Bolino, secondo cui l’urto della testa della ragazza contro la porta in sequestro avrebbe dovuto comportare la presenza sul suo corpo di segni di afferramento e colluttazione che ‘oggettivamente’ mancano.

Tale osservazione – a giudizio di questa Corte – non è particolarmente significativa, perché potrebbe essersi verificata un’azione repentina (senza alcuna colluttazione) in danno di una persona di peso modesto (circa 45 Kg) e indossante i vestiti, per cui l’azione di “lancio” potrebbe non aver lasciato tracce visibili di afferramento.

Altro fattore di dubbio valorizzato dal primo Giudice è la ridotta altezza della ragazza rispetto al punto di rottura della porta.

Anche tale circostanza – alla quale sono state dedicate complessivamente svariate ore nei due dibattimenti, con una interminabile disputa nell’elevare o abbassare l'”asticella” di una manciata di centimetri – non sembra a questo Giudice particolarmente rilevante, perché ciascuno degli imputati (persino la Signora Mottola) avrebbe potuto, dato li modesto peso della ragazza,scagliarne li corpo verso l’alto e farlo impattare a 154 cm. da terra (il centro della lesione della porta).

La prima Corte ha, invece, segnalato altre criticità delle tesi dei consulenti dell’accusa, sulle quali si può convenire: “l’urto del capo di Serena contro la porta avrebbe dovuto determinare delle lesività accessorie a livello della spalla arto e/o dell’emitorace sinistro: traumi nel caso in esame non rinvenuti; (riprendendo alcune osservazioni del Prof. Bolino sulla compatibilità morfologica) . . . si confrontano due strutture senza l’interposizione dei tegumenti che avrebbero dovuto riportare non solo la lesione n. ,1 bensì anche altre lesioni soprattutto lungo il contorno dell’affossamento del mezzo lesivo; (e, rinforzando il rilievo con le parole del Prof. Potenza)… un impatto come quello disegnato dalla Prof. Cattaneo contempla un contatto della rima di frattura inferiore della porta anche con la regione zigomatica sinistra, ove si sarebbero dovute realizzare discontinuazioni cutanee analoghe a quelle descritte a carico della regione frontotemporale sinistra, che invece sono assenti; entrambi i consulenti medico-legali si sono poi espressi nel senso che la Prof.ssa Cattaneo per realizzare la suddetta ‘compatibilità’ abbia dovuto far assumere al capo una posizione obbligata che avrebbe coinvolto nell’urto anche la mandibola ed ni particolare il collo e il condilo mandibolare, che invece nella fattispecie in esame non hanno riportato alcuna lesione”

Con le precisazioni compiute da questa Corte sulle tracce d’afferramento (e sull’altezza), la proposizione interrogativa indiretta a chiosa dell’indagine del Collegio di primo grado su tale rilevante aspetto affonda le sue radici nella corretta disamina dei risultati dei rilievi tecnico-scientifici: “In particolare, ci si chiede come possa l’aggressore aver effettuato tale violenta spinta senza lasciare alcun segno sul corpo di Serena e contestualmente quale posizione avrebbe dovuto assumere il resto del corpo della vittima per non impattare in alcun modo contro la porta e non riportare lesioni in altre parti del corpo; il tutto senza sporcare i vestiti di sangue.” (pag. 196).

Le critiche dell’appellante proseguono, poi, sul tema della rilevanza – disattesa dalle Difese, dagliesperti degli imputati e dalla Corte – della consulenza entomologica della Prof. Paola Magni.

Nel tirare le somme della sua approfondita disamina, li P.M. osserva: “Quindi, riepilogando, dallo studio dello stadio delle larve, la prof., retrodatando 42/36 ore (come da tabella a pag. 30 della sua consulenza) dalle 17 del 3/06/2001 arriva in un’epoca tra le 23 del 01/06/2001 (42 ore) e le ore 5 del 2/06/2001 (36 ore) indicata come epoca della colonizzazione del corpo da parte dei ditteri, ‘quindi diciamo la notte tra l’1 e il 2, più verso le ore della mattina’ perché, come ha spiegato, è più probabile che le larve colonizzino con la luce. Ora, si badi bene, non si tratta dell’orario della morte ma di quellodella colonizzazione. Questi dati sono stati poi utilizzati all’udienza del 17/06/22 dalla prof.ssa Cattaneo e dalla consulente della parte civile prof.ssa Regimenti, anch’ella medico legale, per arrivare a calcolare l’ora della morte, ma al contrario non sono stati minimamente presi in considerazione dal consulente delle difese prof. Bolino, per un errore cui è stato indotto dagli avvocati della difesa, che merita riportare “

Ebbene, pur aderendo a tale tesi (ma le critiche dei Difensori non sono tutte basate sull’ equivoco segnalato: si veda la memoria conclusiva), può dirsi che – insieme con la “compatibilità morfologica” tra l’emicranio sinistro di Serena Mollicone e la rottura della porta – sussiste una compatibilità (utilizzando, peraltro, i valori più alti dei due range stabiliti dagli esperti) tra l’orario in cui, secondo l’Accusa, è stato portato a compimento l’omicidio della ragazza e gli esiti scientifici dell’accertamento compiuto dalla consulente Magni; e ciò tenuto anche conto dell’ampio range di entrambi gli elementi: morte intervenuta dopo mezz’ora/dieci ore dal trauma cranico produttivo della perdita di coscienza e retrodatazione di 42/36 ore dalle 17 del 3 giugno 2001.

Le doglianze dell’appellante si incentrano, diseguito, sullasottovalutazione, ad opera del Collegio di primo grado, “della CTU (rectius = CTP) merceologica dei RIS Casamassima, Dela Guardia e Scatamacchia”.

Nel ripercorrere i passaggi più importanti del lungo e meticoloso lavoro dei consulenti tecnici, li P.M. ha, tra l’altro, osservato che Casamassima, quale portavoce del collegio di esperti, “ha riferito in udienza un dato importantissimo, che la Corte, incredibilmente, ha del tutto sottovalutato, anzi non ne ha proprio parlato, e cioè che sui nastri adesivi che avvolgevanoil capo di Serena Mollicone sono stati trovati frammenti di legno, di legno e colla di resina alchidica alla nitrocellulosa che componevano gli strati della porta rotta dell’appartamento a trattativa privata!”.

Anche in questo caso, però, la critica appare ingenerosa, perché nella motivazione della Corte (si leggano le pagine 197/202), si è dato ampio conto del metodo seguito, dei test eseguiti e dei risultati conseguiti.

E la stessa Corte – contrariamente a quanto opinato dall’Accusa – attraverso una motivazione tutt’altro che apparente, ha mostrato gli aspetti di criticita sollevati dalle Difese e dai loro tecnici, senza, peraltro, preferire “la tesi della difesa rispetto a quella dell’accusa”

Se ciò fosse avvenuto, la sentenza di assoluzione sarebbe stata emessa a norma del primo comma dell’art. 530 c.p.p., e non del capoverso dello stesso articolo.

L’accoglimento delle tesi difensive avrebbe determinato la carenza di supporti tecnico-scientifici all’ipotesi accusatoria, e, in un processo caratterizzato dall’assenza di prove ni senso stretto, testimoniali e documentali, avrebbe sancito l’inverosimiglianza, se non l’insussistenza, dei profili di responsabilità elevati a carico degli odierni imputati.

lI Collegio di Cassino ha, invece, posto l’accento sull’incapacità dei risultati scientifici di supportare in termini di certezza i fatti descritti nei capi di imputazione, mai negando, comunque, la compatibilità tra detti risultati e la ricostruzione accusatoria.

Era precipuo compito del primo Giudice – svolto con aderenza a tutte le risultanze dibattimentali – illustrare, insieme con l’autorevole apporto dei consulenti del P.M. e delle parti civili, i diversi pareri formulati dagli esperti nominati dagli imputati.

E ciò vale anche per la valutazione degli altri accertamenti tecnici compiuti nella fase delle indagini, i cui risultati sono stati ampiamente illustrati nei due dibattimenti.

La sentenza impugnata, a proposito dell’analisi delle tracce rinvenute sugli indumenti della vittima, non ha potuto fare a meno di rilevare che “dalle indagini merceologiche effettuate, il materiale risultato maggiormente coerente è una polvere a base di ossidi di cerio, utilizzata come polish. Tale prodotto viene in specie impiegato nell’ambito dell’edilizia per la lucidatura di marmi, vetri e specchi posti in opera e nelle carrozzerie per l’eliminazione di graffi da parabrezza e fari. Gli esiti richiamati sono rimasti privi di alcuna spiegazione nella ricostruzione della dinamica delittuosa a carico degli imputati.” (pag. 206).

E sui risultati della consulenza genetica – svolta dalla dott.ssa Elena Pilli (oggi docente al Dipartimento di biologia dell’Università di Firenze, all’epoca in servizio presso la sezione biologia del RIS di Roma) – sulle micro-tracce di frammenti lignei rinvenuti sul nastro adesivo utilizzato per avvolgere li capo di Serena Mollicone e sulla comparazione – con pari analisi genetica botanica – con li materiale di cui è costituita la porta in sequestro, li Giudice di primo grado ha osservato, tra l’altro (si leggano le pagine da 206 a 211): “la consulenza tecnica in esame ha di certo provato che i frammenti di legno rinvenuti sui nastri adesivi nn. 11 e 13 non siano di origine naturale, essendo composti da una miscela di legni. Rimane tuttavia incerto il valore probatorio della sovrapponibilità al 90% dei 6 frammenti sopra citati con i campioni di confronto della porta in sequestro, ciò prima di tutto in termini assoluti, non essendo chiara la capacità identificativa di tale tecnica di indagine genetica rispetto a d un materiale, quale è appunto il legno, oggetto di un utilizzo massivo a livello industriale per la produzione di manufatti. Ulteriore incertezza deriva dal fatto che gli esiti riportati contemplano anche frammenti per i quali è stata ricavata una scarsa sovrapponibilità con i campioni di confronto della porta. Rispetto a tali frammenti la consulente ha specificato che ciò potrebbe derivare dalla diversa dimensione delle microtracce; tuttavia è doveroso evidenziare come tra le tracce scarsamente sovrapponibili vi siano proprio le tracce più grandi, che avrebbero dovuto consentire nella specie un confronto più agevole e anche più rappresentativo.” (pag. 211).

Questa Corte condivide anche questi ultimi rilievi – al pari di quelli sui risultati delle analisi delle tracce sugli indumenti della vittima – che non sono stati scalfiti né dagli argomenti degli appellanti né dagli esiti dell’istruzione dibattimentale svoltasi in questo grado di giudizio.

E osserva, inoltre, che anche le discipline dotate di maggiore scientificità incontrano limiti intrinseci di efficacia ai fini della integrale conoscenza degli accadimenti; nel caso in esame, inoltre, i relativi cultori si sono imbattuti nel limite estrinseco dell’effettuazione di accertamenti ed esperimenti a distanze abissali dal fatto delittuoso (quasi tutti dopo li rigetto, avvenuto nel 2016, della richiesta di archiviazione).

Non c’è dubbio che nessuno degli esiti degli accertamenti tecnici e degli esperimenti scientifici sia stato in grado di smentire le ipotesi accusatorie; anzi, alcuni elementi riescono a corroborare la ricostruzione dei fatti contestati.

Tuttavia, n o n può condividersi li sopra menzionato ragionamento dell’appellante Procura (“Ritiene anzi questa Accusa che la Corte abbia applicato un ragionamento inferenziale all’incontrario, in quanto non solo ha demolito ogni singolo indizio ma ha fatto riverberare l’asserita non valenza del singolo indizio anche sugli altri, che ha ritenuto non validi proprio a causa del primo, con un effetto a cascata.”), perché è preliminare e indispensabile obbligo del Giudice li vaglio critico di ogni singolo indizio, al fine di valutarne la gravità e la precisione, prima di procedere alla verifica della concordanza di tutti gli indizi offerti al suo esame, e della loro complessiva forza dimostrativa.

lI Giudice di legittimità ha più volte stabilito che “In tema di valutazione della prova indiziaria, il giudice di merito non può limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata degli indizi, né procedere ad una mera sommatoria di questi ultimi, ma deve, preliminarmente, valutare i singoli elementi indiziari per verificarne la certezza (nel senso che deve trattarsi di fatti realmente esistenti e non solo verosimili e supposti) e l’intrinseca valenza dimostrativa (di norma solo possibilistica), e, successivamente, procedere ad un esame globale degli elementi certi, per accertare se la relativa ambiguità di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa in u n a visione unitaria risolversi, consentendo di attribuire il reato all’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio e, cioe, con un alto grado di credibilità razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano prive di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana.” (Cass., 1, n. 8863 del 18 novembre 2020).

È opinione di questa Corte che li Giudice di primo grado abbia svolto correttamente entrambe le operazioni valutative.

È vero che, ni altre pronunce della Suprema Corte, si colgono i segnali di un’applicazione meno rigida di tale consecutio.

Ad esempio, la massima tratta dalla decisione n. 45851 del 15 settembre 2023 della seconda sezione (“In tema di processo indiziario, il giudice può fondare il proprio convincimento circa la responsabilità dell’imputato anche sulla concatenazione logica degli indizi, dalla quale risulti che il loro complesso possiede quella univocità e concordanza atta a convincere della loro confluenza nella certezza in ordine al fatto stesso”), sembra offrire li destro per superare, attraverso la logica, la circostanza che alcuni degli indizi difettino dei caratteri della gravità e della precisione.

Ma, se paragoniamo la vicenda da ricostruire a un puzzle, non sembra conforme ai canoni dell’art. 192, capoverso, c.p.p., e dell’art. 533 c.p.p., comporlo con tasselli con figure sfocate e colori sbiaditi o che non si incastrino perfettamente con gli altri.

Fuor di metafora, se alcuni fatti sono suscettibili di diversa interpretazione o alternativa spiegazione, li complessivo quadro accusatorio non può non risentirne.

E bene non abbandonare l’insegnamento della stessa Corte regolatrice, secondo cui “In tema di prova indiziaria, ai sensi dell’art. 192, comma 2 cod. proc. pen., gli indizi devono essere gravi, ossia consistenti, resistenti alle obiezioni e capacità dimostrativa in relazione al ‘thema probandum’, precisi, ossia specifici, univoci e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto o più verosimile, nonché concordanti, ossia convergenti e non contrastanti tra loro e con gli altri dati e elementi certi.” (Cass., V, n. 1987 dell’11 dicembre 2020).

Concludendo il discorso sul tema della valutazione delle consulenze tecniche espletate dall’Accusa, li P.M. appellante fa delle considerazioni finali, nelle quali stigmatizza li totale travisamento di tali prove (v. pag. 150 dell’atto di impugnazione) e aggiunge alcune notazioni riguardo alle indagini biologiche del Maggiore Rapone e al rilevamento delle impronte dattiloscopiche dal Maresciallo Gennari sui nastri adesivi che avvolgevano la vittima.

Questi ultimi due accertamenti non hanno fornito elementi a suffragio dell’ipotesi accusatoria.

lI mancato rinvenimento sulla porta del profilo genetico della vittima, però – a parere del P.M. – non è portatore di alcuna conseguenza negativa per l’accusa “se si tiene conto del fatto che sulla porta non sono stati trovati neanche i profili genetici della famiglia Mottola e neanche della famiglia Suprano, che, è pacifico, l’ebbero ni uso.” (pag. 153).

Analogamente, a proposito delle impronte dattiloscopiche rinvenute dal Maresciallo Gennari, già nei primi giorni dopo l’omicidio, sui nastri adesivi (e poi sottoposte a indagine dal Maggiore Rapone: v. pagg. 154-155), l’appellante, al fine di giustificare l’inconferenza dimostrativa ai fini dell’accusa, si lascia andare a ininfluenti considerazioni ipotetiche: “. . . premesso che la loro presenza non ha impedito a Carmine Belli di andare a giudizio, anche se non vi era corrispondenza tra le sue impronte dattiloscopiche e quelle rinvenute sul nastro e che è stato assolto per motivi che niente hanno a che vedere con tale circostanza, si deve rilevare che non si può escludere che si trovassero sul nastro adesivo prima dell’azione criminosa, oppure si può ipotizzare, dato che sono state trovate sui nastri 15 e 18 e cioè quelli che avvolgevano le mani e le gambe di Serena, ma non sul nastro n. 12, che invece le ostruiva le vie aeree e quindi l’ha uccisa, che siano state rilasciate da persona ignota che ha concorso nel confezionamento del cadavere e non nell’omicidio.” (pag. 155).

Va, peraltro, precisato che l’ignoto, apponendo li nastro sulle vie aeree, e causando l’asfissia letale, avrebbe concorso nell’omicidio, e non soltanto nel confezionamento del cadavere.

Ciò ol si dice, anche perché, spesso, nel ricostruire la vicenda, ci siè soffermati molto sul “lancio”

lesivo contro la porta, e troppo poco sulla successiva attività causativa della morte, pacificamente avvenuta per asfissia meccanica da occlusione completa degli orifizi nasale e buccale.

La Procura appellante prende, poi, in esame le risposte date da Anna Maria Mottola e Marco Mottola nel corso dell’esame

cui si sono sottoposti, rispettivamente li 13 e l’11 maggio 2022, e le spontanee dichiarazioni rese da Franco Mottola nell’udienza del 18 maggio 2022.

Si tratta di un’analisi dettagliata e meticolosa, finalizzata a far emergere contraddizioni interne ai singoli atti dibattimentali e, soprattutto, discrepanze tra le versioni rese dai tre imputati, oltre che ‘passaggi’ contrastanti con altri elementi, logici e dichiarativi.

Nell’atto di appello, si stigmatizza li mendacio dell’imputata in merito all’apertura dei cancelli della caserma (pag. 156), ni ordine alla rottura della porta (pag. 157/159), e circa li rientro in caserma nella notte tra li 1° e li 2 giugno (insieme con li marito, e a bordo della di lui auto privata) nonché li silenzio sui motivi del trasferimento da Arce della famiglia e sulla malattia della figlia.

L’appellante fornisce una chiave di lettura ‘malevola’ della prima “bugia”: “. . . Si rileva che la falsità profferita dalla Mottola non è una circostanza di poco conto perché è evidentemente volta a screditare le dichiarazioni di Tuzi, che ha dichiarato di aver ricevuto dall’alloggio del comandante una chiamata nell’interfono per aprire il cancelletto pedonale e far salire la Mollicone nell’alloggio; l’imputata ha voluto far credere che per accedere al suo alloggio bastava citofonare e farsi aprire il cancello carrabile superiore, senza entrare in caserma, ma, come detto, non è così.”

Cosi ragionando, non si prende ni considerazione l’ipotesi che, a distanza di 20 anni dall’abbandono dell’alloggio di servizio da parte della famiglia Mottola, li ricordo possa essere fallace, e che la situazione di assenza di telecomandi per l’apertura del cancello grande e del portoncino d’ingresso è riferita dal Maresciallo Evangelista alla situazione del 2004, anno del suo arrivo alla Stazione CC di Arce, e non al 2001.

Certamente meno spiegabili appaiono le contraddizioni e le “ignoranze” palesate nella descrizione, da parte dell’imputata, della vicenda della porta. Tuttavia, non si può censurare la Corte di Cassino laddove questa si rifiuta di attribuire credibilità alla teste Mirarchi, le cui dichiarazioni – nell’ottica e negli auspici della Procura – avrebbero dovuto “puntellare” la consapevolezza da parte dell’imputata della rottura della porta fin dal 2002.

La dichiarazione di Rosa Mirarchi è imprecisa e confusa in relazione a un elemento essenziale, e, cioè, la collocazione della porta nell’alloggio dei Mottola, e non nell’alloggio sfitto.

Non può dirsi (pag. 159 dell’atto di appello) che “/a motivazione sull inattendibilità della Mirarchi è illogica”,

“, utilizzando l’argomento dell’unicità della porta rotta e attribuendo la confusione e la reticenza della teste Mirarchi al “clima di omertà e condizionamento ambientale che si è respirato in tutto il dibattimento, in quanto molti testi evidentemente hanno cercato di ‘tenersi fuori

nuovamente ni questo giudizio d’appello – non è sembrata vittima di “contagio da paura”).

A sostegno della significatività del silenzio sulla malattia della figlia Anna, l’appellante riporta uno stralcio dell’anamnesi contenuta nella cartella clinica dell’Ospedale: “. La madre racconta che ad Arce, dove vivono, è morta una ragazza che conoscevano e il padre insegnava per cinque anni ad Anna. La madre è convinta che la causa dei problemi della figlia è l’omicidio”.

È evidente che un turbamento, tale anche da incidere pesantemente sulla psiche di una bambina, può essere determinato anche dalla semplice conoscenza di un evento traumatico e drammatico, avvenuto ni danno di una giovane persona di una ristretta comunità, e occorso a una delle figlie del proprio maestro elementare, senza che possa arguirsi la consapevolezza del coinvolgimento nell’omicidio dei suoi familiari.

Inoltre, sarebbe stata una grossa ingenuità, da parte di Anna Maria Mottola, quella di attirare – sia pure attraverso una dichiarazione destinata a comporre un atto sanitario riservato – l’attenzione di altre persone su un evento in cui lei stessa, li marito e uno dei figli erano coinvolti.

Quanto al rientro ni caserma nella notte tra li 1° e li 2 giugno 2001, insieme con li marito, quale passeggera della Lancia K, l’imputata ha negato tale episodio, richiamando la circostanza della presenza in casa di una bambina piccola da accudire, li che rendeva impossibile un’uscita a quell’ora.

La Procura cassinate richiama – al fine di qualificare mendace anche tale ultima dichiarazione – li racconto dell’appuntato Cuomo, racconto che (come si è accennato nel corso della disamina delle dichiarazioni di Tuzi) è rimasto sfornito di conferme dichiarative ed è risultato scarsamente compatibile con le risultanze tecniche (i tabulati telefonici).

L’appellante ha lanciato analoghe accuse di mendacio all’imputato Marco Mottola, li quale ha reso dichiarazioni simili a quelle della madre ni ordine ai sistemi di apertura della caserma.

Di seguito, è stato affrontato li tema della porta: l’imputato non ha saputo dare spiegazioni sul perché li padre aveva, in un primo tempo, attribuito a lui la responsabilità della rottura.

Apprezzabile – e, coronata da parziale successo (si rimanda alla lettura delle pagine 162-164 dell’atto di appello) – è la diffusa argomentazione con la quale l’appellante ha criticato le valutazioni svolte sul punto (pag. 219 della sentenza) dalla Corte di primo grado a proposito del contrasto tra le dichiarazioni che vogliono la porta rotta ora da Marco ora da Franco Mottola. Scrive li Collegio di Cassino: “… per quanto siano emerse delle contraddizioni e delle incongruenze nelle ricostruzioni offerte dagli imputati, le stesse sotto il profilo logico appaiono difficilmente spiegabili come prova della loro responsabilità, ciò in particolare considerato come gli stessi abbiano avuto a disposizione molto tempo, non solo per aggiustare o cambiare la porta rotta citata, ma anche per concordare una comune versione dei fatti da offrire all’A. G.”

La Pubblica Accusa sottopone, inoltre, a critica serrata la scorretta valutazione delle condotte e delle dichiarazioni spontanee del Maresciallo Mottola, contenenti un inverosimile racconto sulla vicenda della porta e la rappresentazione di circostanze in contrasto con le dichiarazioni di alcuni testimoni ( i n particolare, la mancata verbalizzazione delle dichiarazioni di Carmine Belli nel pomeriggio del 2 giugno, e di quelle di Simonetta Bianchi poco più tardi).

I rilievi della Procura contengono, però, illazioni e forzature su alcuni aspetti, come, ad esempio, la “lettura” della richiesta di trasferimento alla Stazione CC di Ostia, presentata dal Maresciallo li 27 aprile 2002, e motivata con “asserite necessità di salute della moglie che aveva bisogno di soggiornare al mare (in realtà la moglie ad Ostia non andò mai” – v. pag. 169 dell’atto di appello)”: si osserva che, in quel momento (in cui le indagini erano, peraltro, orientate nei confronti di Carmine Belli), per li Maresciallo qualsiasi motivo, anche pretestuoso, era valido, al fine di supportare l’ottenimento di un trasferimento a domanda, per prevenire e scongiurare li trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale che stava maturando in suo danno (le ragioni di tale ultimo, imminente, provvedimento “punitivo” sono espresse a pag. 169 dell’atto di appello)

Tuttavia, nel complesso, le dichiarazioni degli imputati Mottola sono state tutt’altro

che convincenti, essendo caratterizzate da incongruenze e inverosimiglianze.

Pertinente (in astratto) è anche li richiamo dell’appellante all’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “l’imputato non è obbligato ad un comportamento collaborativo, ma non certo al più grave addebito di aver tenuto una condotta processuale ambigua, atteso che il pieno esercizio del diritto di difesa, se faculta appunto l’imputato al silenzio e persino alla menzogna, non lo autorizza, per ciò solo, a tenere atteggiamenti processualmente ‘obliqui’ e fuorvianti, in violazione del fondamentale principio di lealtà processuale che deve comunque improntare la condotta di tutti i soggetti del procedimento e la cui violazione è indubbiamente valutabile da parte del giudice di merito.” (Cass., sez. un,. n. 36258 del 2012).

Occorre, peraltro, precisare che, nel caso in esame, la scelta del Maresciallo di non rendere l’esame (e la decisione della moglie e del figlio di non rispondere ad alcune domande) costituisce un comportamento silente, ma non una condotta obliqua e fuorviante, situazione che non è integrata neanche dal mendacio (vero o presunto) di alcune loro dichiarazioni.

Inoltre, la “valutabilità” della condotta processuale (e del patrimonio dichiarativo versato in atti) degli imputati non significa poter attribuire ai loro atteggiamenti processuali un ruolo di supplenza rispetto alle lacune dimostrative dell’ipotesi accusatoria.

Al riguardo, è bene fare ulteriori precisazioni.

Relativamente alle dichiarazioni rese da Marco Mottola nella fase delle indagini con riferimento alla sua eventuale presenza presso li Bar “Chioppetelle” li °1 giugno 2001, non può affermarsi che egli abbia fornito un inugno2001,

falso alibi (situazione cui la giurisprudenza annette un più alto grado di “valutabilità” contra reum), quando non ha escluso la possibilità di essere passato da quel luogo in compagnia di Laura Ricci.

E vero che, alla data del 1° giugno 2001, Laura Ricci non era ancora la sua ragazza (quest’ultima era sentimentalmente legata ad un altro ragazzo) ed è altamente improbabile che i due si fossero allora recati insieme al Bar Chioppetelle (la testimone ha, anche in questo dibattimento, dichiarato di ricordare di trovarsi a scuola quella mattina, v. udienza 9 aprile 2024).

E altrettanto vero che Marco Mottola, dopo essere stato sentito (era li 2002) si premurò di avvisare telefonicamente la Ricci di avere reso delle dichiarazioni che la coinvolgevano.

Tuttavia, entrambi (e, ciò che rileva maggiormente, la testimone) hanno fornito spiegazioni plausibili, e in grado di contrastare la tesi che Marco Mottola abbia voluto allontanare i sospetti di una sua presenza in quel luogo e in quella data.

Ecco la replica di Laura Ricci alla comunicazione telefonica di Marco: “lo gli dissi semplicemente: O’ k, non ti preoccupare’. lo penso che lui… Non lo so, l’ho pensato … forse adesso avrei un’altra interpretazione, però a 16anni ho pensato, a 17, ho pensato che mi volesse soltanto avvisare perché mio padre non era molto d’accordo del fatto che io stessi con Marco, quindi sapeva che papà si sarebbe arrabbiato, quindi, l’ho vista come una forma di carineria.”

Le vicende relative agli avvistamenti nei pressi del Bar Chioppetelle e al suo interno saranno comunque approfondite nel corso dell’esame del presunto movente dell’omicidio.

Tutti gli appellanti si sono soffermati sui comportamenti tenuti dal Maresciallo Mottola prima e al di fuori della sede processuale, attribuendogli veri e propri atti di depistaggio.

Va subito detto che ad alcune “storture”, avvenute nel corso delle indagini, tale imputato non ha affatto contribuito.

L’errore di alcune cifre del numero telefonico del figlio Marco in sede di richiesta dei tabulati telefonici è una defaillance verificatasi quando le indagini erano svolte dalla Polizia di Stato.

lI “prelevamento” di Guglielmo Mollicone (percepito come atto volto a seminare sospetti di un delitto maturato in ambito familiare) dalla chiesa in cui si stava svolgendo una veglia funebre per Serena è stato disposto dal Comando provinciale dei Carabinieri su imput della Procura della Repubblica presso li Tribunale di Cassino.

Non vi è, poi, alcuna prova, neanche indiziaria, che li telefono cellulare di Serena (ritrovato nella sua abitazione a seguito dell’ennesimo sopralluogo, dopo precedenti, accurate, negative, perquisizioni) sia stato introdotto dal Maresciallo o su sua istigazione.

Altrettanto dicasi per la scomparsa di alcuni organi interni del corpo di Serena (il consulente medico-legale, prof. D’Aloja, ha riferito che, in occasione del suo trasferimento ad altra sede, detti reperti sono rimasti presso l’Ospedale Gemelli, e non sono stati più reperiti, perché, evidentemente, eliminati), e per li ritrovamento del tagliando del dentista Di Mambro in s e d e di perquisizione della vecchia carrozzeria di Carmine Belli (si era ventilata l’ipotesi che li documento fosse stato ivi collocato dal Maresciallo Mottola o da persona da lui incaricata).

Ciò precisato, risultano ridimensionate le doglianze di tutti gli appellanti – osserva, ad esempio, la Difesa della Sig.ra Armida Mollicone: “Tutti gli evidenziati elementi

fattuali, contraddizioni e depistaggi non sono minimamente valorizzati nella sentenza appellata con sua conseguente erroneità” – in merito alla presunta sottovalutazione da parte della sentenza impugnata delle “anomalie” intervenute nella fase delle indagini e delle contraddizioni contenute nelle dichiarazioni degli imputati.

Peraltro, la Corte di primo grado non ha affatto evitato di confrontarsi con le disarmonie dei racconti degli imputati e con gli aspetti asseritamente o realmente distonici nella conduzione delle indagini.

Rimangono, comunque, forti sospetti che comportamenti decisamente “irregolari” (in primis le mancate verbalizzazioni), stigmatizzati dalla Procura della Repubblica presso li Tribunale di Cassino e dai vertici dell’Arma in vista del trasferimento del sottufficiale (nella nota del 18 giugno 2002 del Comandante provinciale di Frosinone si legge: ” …durante alcune recenti audizioni di testi è stato appurato che nei giorni immediatamente successivi al rinvenimento del cadavere, il maresciallo Mottola aveva appreso da persone del posto particolari che potevano, in quel momento, essere utili alle indagini e riguardanti l’insolito comportamento di determinati soggetti. Tali particolari, tuttavia, sono stati sottovalutati per come ammesso dallo stesso maresciallo e quindi mai documentati o quantomeno riferiti, circostanza che ha determinato nuove rimostranze da parte dell’A.G.”) siano stati qualcosa di più e di diverso di condotte professionalmente maldestre.

E ora li momento di affrontare la vicenda degli avvistamenti di Marco Mottola e Serena Mollicone nei pressi e/o all’interno del Bar “Chioppetelle”

È un aspetto molto rilevante a parere di tutti gli appellanti, perché costituirebbe uno degli antefatti della decisione di Serena di fare ingresso in caserma, al fine di proseguire li litigio con Marco e/o al fine di denunciare le condotte illecite del ragazzo e dei suoi amici “spacciatori”

Dopo l’ingresso in caserma – sempre secondo la prospettazione accusatoria – Marco avrebbe reagito all’atteggiamento ostile della ragazza e l’avrebbe scagliata contro la porta di uno dei bagni dell’alloggio “sfitto”, ponendo ni essere, così, li primo atto della sequenza che ne avrebbe determinato la morte.

Gli avvistamenti sarebbero elementi fondamentali per la ricostruzione del movente e per corroborare le dichiarazioni di Tuzi sull’ingresso in caserma di Serena e le prove tecniche sulla rottura della porta.

E, pertanto, molto importante compiere un’approfondita ricognizione dell’esatta portata delle dichiarazioni sul punto di Carmine Belli e di Simonetta Bianchi.

Non sembra li caso di riportare le svariate narrazioni fatte da Carmine Belli (come indagato, imputato, persona informata e testimone).

E bene privilegiare le dichiarazioni rese da ultimo (udienza 16 maggio 2024)

nella veste di testimone.

Lasciamo, per ora, da parte li profondo, insanabile, contrasto tra li ricordo di Belli e quello del suo “socio” carrozziere Pierpaolo Tommaselli: quest’ultimo ha ribadito, anche dinanzi a questa Corte, che l’avvistamento è avvenuto li 31 maggio, e non li 1° giugno, 2001.

Le dichiarazioni salienti, rese da Carmine Belli nel corso della udienza indicata, sono le seguenti: ” … il sabato mattina (2 giugno) dovevo andare al mercato a Ceprano a comprare qualcosa e portai la bambina da mia sorella e portai la bambina da mia sorella … verso l’una, l’una e mezza, siamo tornati

dal mercato, siamo tornati all’abitazione di mia sorella . . . nel frattempo è arrivata Maria Pia, mia nipote, disse ‘Carmine, lo sai chi è sparita a Arce?;

dissi ‘no, chi è?’; disse ‘è sparita Serena Mollicone’. E da là ho saputo della scomparsa di Serena … Mi fece vedere un volantino, però non era a colori,

era a bianco e nero, era una fotocopia, io, guardando quella foto che mi fece vedere mia nipote, gli dissi ‘Maria Pia, mi sembra che l’ho vista davanti a Chioppetelle ieri mattina’ . . . il venerdì mattina (1° giugno) Tomaselli mi viene

a prendere … siamo andati in un negozio a Isola Liri a fare la vernice di un’Alfa, Alfa 147 o 146, non ricordo proprio il modello … abbiamo comprato questa vernice . . . nel tornare da Isola a Arce, davanti alle Chioppetelle io notai, nel frattempo che passavamo con la macchina, sono cinquanta metri di visibilità,, nel tornare notai una ragazza con un ragazzo che stavano litigando davanti al Bar Chioppetelle. Basta. Finito il tutto. Poi il sabato, quando è successo quell’evento con mia nipote, che mi fece … io, guardando quella ragazza che stava litigando con quel ragazzo con i capelli mesciati, mi sembrava che era lei, poi io dissi a Maria Pia io non riesco a capire con questa foto’, perché era una fotocopia.” (pagine 5 e 6 del verbale integrale).

Va subito rilevato che li testimone non si esprime in termini di certezza sull’identità della ragazza: più avanti nella deposizione, quando descrive li colloquio con Antonio Fraioli, afferma “Avevo visto questo avvistamento, queste due persone che stavano litigando, ma non ho mai detto ‘sì, è Serena Mollicone’, però mi sembrava che era Serena Mollicone tramite la seconda foto che mi fece vedere mia nipote, quella a colori.” (pag. 10).

E vero che sia nella fase delle indagini (anche se la sicurezza al 100% che si trattasse di Serena è stata espressa, li 20 maggio 2002, alla Polizia di Stato – a detta del teste – dopo quattro cazzotti allo stomaco) sia in una successiva audizione e nella deposizione resa in primo grado, a seguito di contestazioni, Belli si è espresso in termini di certezza.

Ma è altrettanto vero che un fugace avvistamento, avvenuto in movimento e durato pochi secondi (a detta del teste, dieci), può legittimare qualche perplessità sulla certezza raggiunta da Belli.

Ma non è questo l’unico elemento di dubbio né li più importante.

Quando li teste viene incalzato con domande miranti a ottenere maggiori dettagli, si apprende che li ragazzo teneva la ragazza con un braccio (“come se qualcuno vuole attraversare la strada e io ti blocco”, pag. 13), che entrambi erano sull’erba, ai margini della strada asfaltata, e che i ragazzi avevano la stessa altezza (a questo proposito li teste, ha aggiunto di essere andato successivamente – li 4 giugno, in compagnia di Antonio Fraioli – a verificare se nel luogo in cui erano i ragazzi ci fosse un dislivello – dal momento che in paese correva voce che ci fosse una differenza di altezza tra i due ragazzi – e ha precisato di non aver constatato alcun dislivello, per cui ha confermato la sensazione che l’altezza fosse identica, v. pag. 14).

Malgrado i tentativi della Procura generale di introdurre elementi – quali i dislivelli, gli avvallamenti, le discesine – idonei a determinare una falsa percezione, li testimone ha confermato che l’altezza dei due ragazzi era stata da lui constatata come di pari livello, e, comunque, omogenea.

Questo è un dato rilevante, in grado di determinare l’esclusione che li ragazzo visto litigare con la ragazza (con ogni probabilità, Serena Mollicone) fosse Marco Mottola, di altezza superiore a quella della ragazza di almeno 20 centimetri.

Anche Tommaselli ha cambiato più volte versione, affermando e negando di avere assistito alla scena del litigio, affermando e negando di avere soltanto voluto a s s e c o n d a r e la veridicità delle informazioni fornite da Belli

agli inquirenti, affermando e negando alcuni particolari delle vicende avvenute in quei giorni nel corso della loro collaborazione nei lavori di carrozzeria.

Non può dirsi che si tratti di un testimone affidabile.

Tuttavia, egli è stato fermo nel sostenere, ni maniera reiterata, che l’avvistamento del litigio tra i due ragazzi è avvenuto li 31 maggio, e non li 1° giugno, fornendo anche i punti di riferimento del suo ricordo (in particolare, la parata militare per la festa della Repubblica, alla quale sabato 2 giugno avrebbe assistito in TV a Roma in compagnia del suocero: li che gli ha consentito di retrodatare i lavori e la consegna dell’auto Alfa 156).

Se quella indicata da Tommaselli fosse la vera data dell’avvistamento, quest’ultimo sarebbe un dato neutro (o addirittura negativo per la ricostruzione accusatoria), anche perché la mattina del 31 maggio Serena si trovava a scuola.

Comunque, pur dovendosi privilegiare, sul piano probatorio, le dichiarazioni di Beli – per tutte le ragioni espresse dagli appellanti (il P.M., ni 1 punti, da pag. 175 a pag. 182, contrasta efficacemente l e considerazioni svolte sul punto dalla Corte cassinate) – la testimonianza di Tommaselli finisce per incrinare la certezza dell’avvistamento, circostanza che, in uno con i dubbi sull’identita dei protagonisti del litigio (soprattutto di quello maschile), determina una sensibile diminuzione dei tassi di gravità e precisione dell’indizio.

Gli appellanti richiamano l’attenzione di questa Corte sulle dichiarazioni di Simonetta Bianchi, anch’ella autrice di un avvistamento potenzialmente idoneo a dimostrare la presenza di Marco Mottola al Bar “Chioppetelle” (in cui la testimone prestava servizio) la mattina del 1° giugno 2001.

L’appellante Procura, prima di esaminare la valenza probatoria del narrato della teste, ha impugnato l’ordinanza emessa li 27 giugno 2022 dal Collegio di Cassino, con la quale veniva rigettata la richiesta di acquisizione, ex art. 500, comma 4, c.p.p., delle dichiarazioni rese dalla Bianchi durante la fase delle indagini preliminari.

Questa Corte, con una breve ordinanza emessa li 16 maggio 2024, ha confermato tale diniego.

Va dato atto che la memoria redatta dalla Procura di Cassino a sostegno dell’acquisizione dei verbali delle dichiarazioni delle indagini preliminari, prodotta dinanzi al primo Collegio e richiamata integralmente ni questa sede, contiene argute riflessioni e puntuali richiami a vicende, processuali e non (si rinvia alla lettura delle pagine 187/196 dell’atto di appello), in grado di suscitare dubbi sull’atteggiamento di “chiusura” della testimone (che ha preso le mosse li 25 luglio 2002, con la dichiarazione di non ricordare più niente, “perché nel frattempo sono successe molte cose”) e perplessità sulla sua reale “perdita di memoria”

Tuttavia, li disposto dell’art. 500, comma 4, c.p.p. (“Quando, anche per le circostanze emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinchè non deponga ovvero deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento e quelle previste dal comma 3 possono essere utilizzate”) non può essere interpretato cosi estensivamente da ricomprendere li caso in esame.

L’appellante richiama alcune massime, che esprimono l’orientamento ni materia espresso dal Giudice di legittimità.

La prima è tratta dalla sentenza n. 10846, emessa li 19 novembre 2014 dalla terza sezione della Corte di Cassazione: “Ai fini dell’acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni in precedenza rese dal teste, ai sensi dell’art. 500, co. 4, c.p.p., la sussistenza di elementi concreti per ritenere che il testimone sia stato sottoposto a violenza o minaccia può desumersi da circostanze sintomatiche dell’intimidazione emerse anche soltanto al di fuori del dibattimento”.

La seconda è la n. 22440 del 5 maggio 2016, pronunciata dalla seconda sezione: “Ai fini dell’acquisizione al fascicolo del dibattimento, ai sensi dell’art. 500, co. 4, c.p.p. delle dichiarazioni predibattimentali del testimone, gli elementi concreti sulla base dei quali può ritenersi che egli sia stato sottoposto a violenza o minaccia affinche non deponga oppure deponga il falso da un lato non possono coincidere con gli elementi di prova necessari per una pronuncia di condanna, dall’altro non possono risolversi in vaghe ragioni o ni meri sospetti, disancorati da qualunque dato reale, ma devono consistere, secondo parametri correnti di ragionevolezza e di persuasività, in elementi sintomatici della violenza o dell’intimidazione subita dal teste, purchè connotati da precisione, obiettività e significatività”

La terza è stata emessa li 22 ottobre 2013 (n. 50323, seconda sezione): “I/ procedimento incidentale diretto ad accertare se il testimone sia stato sottoposto a violenza o minaccia, offerta o promessa di denaro al fine di non deporre o deporre il falso non richiede una prova certa oltre ogni ragionevole dubbio ma deve comunque fondarsi su elementi sintomatici e rivelatori dell’intimidazione subita dal teste, connotati da precisione e persuasività, non potendo ritenersi sufficienti i meri sospetti o soltanto il timore soggettivo di poter essere minacciato”

A giudizio di questa Corte, gli elementi addotti dal P.M. sono di natura eminentemente logica, e non è possibile rinvenire concreti e p i s o d i

di intimidazione nè ipotizzare l’identità degli autori delle stesse: le “circostanze sintomatiche” finiscono per confondersi con li risultato delle ipotizzate – ma non provate, neanche in maniera indiziaria – intimidazioni.

L’unico riferimento “storico” è quello (sul quale la testimone ha opposto l ‘ e n n e s i m o “non ricordo”, pag. 76 del verbale dell’udienza del 2 luglio 2021) relativo alla “voce” (veicolata anche da Tuzi?) – di cui la teste ha parlato li 2 ottobre 2018 – secondo cui, in caso di riconoscimento di Marco Mottola come li ragazzo che fece ingresso nel Bar “Della Valle-Chioppetelle”, li padre di Marco l’avrebbe denunciata; peraltro, la Bianchi, ni quelle

sommarie informazioni, precisa che tali voci le sarebbero giunte “successivamente” rispetto al mancato riconoscimento.

Oltretutto, non sarebbe il primo caso, ni questo processo, di testimone che – per quieto vivere, per “levarsi dagli impicci” – ha scelto, pur in assenza di interventi esterni, di rendere dichiarazioni lacunose o reticenti, o, addirittura, di ritrattare, almeno in parte, precedenti dichiarazioni.

Appare, pertanto, corretta l’ordinanza emessa li 27 giugno 2022, nonché la riflessione dell’omologo di questo estensore: “Se la teste non smentisce quello che ha detto all’epoca, ma dice solo di non ricordare, non è stata minacciata Perché ha confermato tutto quello che è stato detto.” (verbale integrale dell’udienza del 2 luglio 2021, pag. 74).

Le conferme (intervallate da innumerevoli “non ricordo”) avvenute in sede dibattimentale consentono, comunque, di non disperdere li contributo di conoscenza fornito dalla teste Simonetta Bianchi.

E, contrariamente a quanto auspicato dagli appellanti, tale testimone non ha fornito un contributo dichiarativo rilevante per ritenere che li ragazzo visto entrare nel Bar la mattina del 1° giugno 2001 fosse Marco Mottola.

Occorre prendere atto che la descrizione del soggetto che entrò nel Bar ni compagnia di una ragazza (che certamente non era Serena Mollicone) non conduce all’individuazione dello stesso come Marco Mottola, non potendosi – in presenza dell’indicazione di un’altezza di quasi venti centimetri inferiore a quella di quest’ultimo – attribuire valore determinante ad alcuni dettagli, quali l’abbigliamento (“la descrizione dell’abbigliamento che ne fa la Bianchi nelle sue sit del 17/04/02, cioè con indosso pantaloni jeans corti di colore chiaro e una tshirt bianca, corrisponde molto all’abbigliamento visto da Elisa Santopadre alle 12 circa del 1giugno 2001 quando Marco si è recato in piazza ad Arce; lo descrive con indosso un pantalone corto blu e una maglietta bianca”, atto di appello, pag. 185: abbigliamento comune in quel periodo, e con le caratteristiche cromatiche dei pantaloni non proprio coincidenti) o li colore dei capelli.

Inoltre, l’ulteriore ricostruzione effettuata dal P.M. appellante (pag. 185 dell’atto di impugnazione), non fornisce alcuna certezza: ” …data la contestualità di tempo e di luogo, ni quanto Belli ha dichiarato di aver visto il ragazzo dai capelli mesciati litigare con Serena alle 10 circa nei pressi del bar e la Bianchi, alle 10:30 circa, vide un ragazzo con i capelli mesciati entrare nel bar con un’altra ragazza, che non ha mai detto essere Serena Mollicone (se non ni forma dubitativa il giorno 3 giugno per poi ricredersi il 4 giugno stesso), dato che è davvero difficile che nello stesso luogo ed alla stessa ora, vi fossero, il 01/06/2001, in un piccolo bar di campagna, due ragazzi dai capelli mesciati, si deve dedurre che il ragazzo dai capelli mesciati entrato nel bar sia lo stesso visto poco prima litigare con Serena Mollicone; la Bianchi disse nelle sit del 17/04/02 che quando il ragazzo usci dal bar insieme con la ragazza, lo vide salire su una Y10 con targa a fondo scuro, che è partita in direzione di Arce, sulla quale vi erano un altro ragazzo ed un altra ragazza. Costei e non quella entrata nel bar era, secondo un ragionamento inferenziale, Serena Mollicone. Ora, dato che Marco Mottola possedeva entrambi i requisiti, cioè aveva i capelli mesciati e utilizzava una Y10 bianca (lui solo in tutta Arce), perché un’altra Y10 bianca la possedeva solo il suo amico Fabrizio Bevilacqua, però usata dal padre che lavorava fuori Arce e tornava solo il sabato (si vedano le dichiare in di puo ei er vai qui ludito ivedligare ocn Ser 173,) es en Ragionamenti inferenziali e deduzioni che non tengono conto di altre evidenze:

-non sussiste alcuna certezza che li ragazzo visto alle ore 10 da Belli fosse Marco Mottola;

-altrettanto dicasi per li ragazzo visto entrare nel bar da Simonetta Bianchi (appare scarsamente significativa, e non provata, la circostanza che “… la Bianchi, seppure abbia visto il ragazzo da vicino, lo ha visto da dietro un bancone rialzato e quindi non a figura intera.”);

-che nell’auto ci fosse Serena è una mera ipotesi, priva di riscontri;

-non sono mai stati individuati gli altri due passeggeri dell’auto; anzi, li soggetto maschile sarebbe stato alla guida della macchina in uso a Marco Mottola;

l-i Bar “Chioppetelle” si trova a distanza di pochi chilometri da altri centri abitati diversi da Arce, per cui neanche l’unicità della vettura in detto comune appare elemento indiziante.

E, per finire, questa Corte non può emendare gli sbagli compiuti durante la fase delle indagini.

Ci si riferisce al c.d. confronto tra Simonetta Bianchi e Marco Mottola, che, in realtà, sarebbe consistito in un (irrituale) atto di ricognizione di persona.

Senza avere la pretesa di insegnare li mestiere agli addetti ai lavori, se un inquirente dispone di una individuazione fotografica, in cui l a persona chiamata ad effettuare li riconoscimento si dice certa all’80% della

corrispondenza tra li soggetto effigiato e li soggetto visto in una determinata occasione, deve procedere, al fine di validare la promettente ipotesi investigativa, a una formale ricognizione di persona a norma degli artt. 213 e 214 c.p.p.

L’Accusa non può ora dolersi del fatto che l’imputato Marco Mottola sia stato posto al fianco di Simonetta Bianchi – generando in questa sentimenti di disagio e/o di timore – e, quindi, cercare di giustificare li mancato riconoscimento, e attribuire maggiore rilevanza alla individuazione fotografica (all’80%).

Gli appellanti ritengono, però, di avere altre frecce nella faretra, in grado di dimostrare i conflittuali antefatti che avrebbero indotto la povera Serena a fare ingresso in caserma e a subire la reazione lesiva di Marco.

La Procura appellante indirizza li movente verso li litigio tra i due ragazzi, pur ammettendo di non conoscerne precisamente li motivo (pag. 211), e critica la sentenza impugnata (che sarebbe andata ultra petita) per avere ipotizzato, erroneamente, che l’Accusa avesse sostenuto la tesi che era intenzione di Serena quella di denunciare Marco in caserma; ipotesi che li giudice di primo grado aveva demolito, ricorrendo a un argomento logico: ” … a n c h e a v o l e r sostenere che Serena avesse effettivamente intenzione di denunciare Marco

Mottola, appare comunque inverosimile che la medesima decidesse di farlo proprio presso la caserma comandata dal padre” (pag. 56 della sentenza).

E bene precisare che li tema dello stile di vita di Marco Mottola non è stato surrettiziamente introdotto e inutilmente trattato dalla Corte, perché nel primo dibattimento (e anche in quello svoltosi in questo grado) le vicende del traffico e del consumo di sostanze stupefacenti nel gruppo in cui era inserito l’imputato (e della di lui spregiudicatezza) hanno occupato un’apprezzabile parte dell’istruzione dibattimentale, anche a seguito di domande dei P.M. e dei Difensori delle parti civili, magari alla ricerca del motivo del rapporto conflittuale tra Serena e Marco.

Tanto è vero che sul comportamento “border-line” del ragazzo hanno riferito, tra gli altri, Michele Fioretti, Elisa Santopadre e Francesca Consiglio, i quali hanno rammentato che Serena, in più di un’occasione, si era lamentata del modo di fare di Marco e dei ragazzi del suo “giro” (analoga “insofferenza” avrebbe manifestato Serena al padre, poco tempo prima della morte, un giorno a pranzo: “Pochi mesi prima della morte di mia figlia Serena, precisamente un mese o due prima del tragico evento, mentre conversavo a pranzo con mia figlia, la discussione scivolò sull’argomento droga, in quella circostanza Serena affermò innervosita: ‘cosa vuole rimproverare il m.llo Mottola quando ha li figlio che spaccia e si droga” – verbale s.i.t. del 2 febbraio 2002)

Altri litigi tra Marco e Serena – oltre quello, peraltro non accertato, nei pressi del Bar Chioppetelle – sarebbero avvenuti nei giorni della festa di Sant Eleuterio (tra li 27 e li 29 maggio 2001) presso li Bar Ceccacci e in epoca imprecisata sulla salita che porta alla nuova caserma.

Ad essi avrebbero assistito, rispettivamente, Giuseppe D’Ammasso e Gianluca Polselli.

La prima deposizione è generica oltre che contraddittoria rispetto alle s.i.t. rese nel 2001, nell’immediatezza dei fatti.

La seconda è, come è correttamente scritto a pag. 58 della sentenza, “… u n a testimonianza de relato generica e non sufficientemente circostanziata, non risultando in alcun modo specificato né il giorno, né i toni e le modalità della citata discussione.”

A smentire li clima di litigiosità nei giorni a ridosso del 1° giugno 2001, c’è la deposizione di Federica Di Palma (che ha dichiarato di aver visto, li 29 maggio, Serena vicina a Marco Mottola ni atteggiamento cordiale) e quella di Elisa Santopadre, che ha ricordato di aver visto la ragazza, sempre li 29 maggio, tranquilla e sorridente.

Anche se occorre registrare – per quello che può valere – che quest’ultima amica di Serena, Michele Fioretti e Francesca Consiglio hanno riferito che, negli ultimi tempi, Serena si era più volte lamentata dell’atteggiamento spavaldo di Marco Mottola e del comportamento suo e dei ragazzi del gruppo a lui più vicino.

Gli appellanti annettono molta importanza alla percezione di un clima di ostilità/litigiosità tra Serena e Marco, oltre che all’esternazione di sentimenti di riprovazione della ragazza nei riguardi del Maresciallo Mottola e del gruppo degli amici più vicini a Marco.

A ben vedere, a parte l’incertezza sui motivi dei presunti diverbi, manca la prova dei litigi stessi, finanche – per le ragioni sopra spiegate circa la mancata identificazione di Marco come li ragazzo visto nei pressi e nel Bar Chioppetelle – di quello avvenuto poche decine di minuti prima del momento in cui l’Accusa ha ipotizzato l’ingresso in caserma di Serena.

Nella prospettazione degli appellanti, la decisione della vittima di entrare in caserma è fondata sulla volontà di proseguire la discussione/litigio con Marco (con, sullo sfondo, secondo un’ipotesi subordinata, la volontà di denunciare le illecite attività del ragazzo).

L’appellante Consuelo Mollicone (quale erede e sorella di Serena) aggiunge altri particolari a sostegno della tesi della litigiosità: “. qualche tempo prima, non più tardi del mese di maggio, Serena aveva stigmatizzato i comportamenti di Marco e del padre durante un dibattito a scuola sul tema giovani e droga. Circostanza appresa dal fratello (di Armida) Guglielmo e confermata dallo zio Antonio in dibattimento, durante l’escussione avvenuta all’udienza del 25.03.2022, pag. 107 della trascrizione, in cui si faceva riferimento al dibattito avvenuto a

scuola,ove Serena aveva detto che non poteva esservi prevenzione o controllo da parte delle forze dell’ordine dal momento che ad Arce era proprio il figlio del maresciallo Mottola, Marco, ad essere tra i peggiori spacciatori sotto il naso del padre e degli altri carabinieri. Anche Armida Mollicone, zia di Serena, ha riferito in dibattimento all’udienza del 22.04.2022 che nel corso di una delle ultime telefonate Serena le aveva raccontato che in prossimità della festa di fine maggio, il maresciallo Mottola l’aveva rimproverata nei pressi dei giardinetti, poiché si era lamentata del comportamento di Marco Mottola. Quindi li 1° giugno, Serena entra in caserma sicuramente per chiarire la discussione avvenuta con Marco quella stessa mattina ed alcuni giorni prima durante la festa di S. Eleuterio. Litigi, discussioni che riguardavano certamente le lamentele’ di Serena in ordine al comportamento spavaldo di Marco Mottola che non si creava nessun scrupolo nello spacciare in pubblica piazza. Il preludio per ciò che le accadrà in caserma quel 1° giugno è anche nel rimprovero che le aveva fatto pubblicamente il maresciallo Mottola” (pag. 80 dell’atto di appello).

Questa ricostruzione, oltre che fondata su dati tutt’altro che certi, finisce per rendere plausibile – o, comunque, non inverosimile – l’ipotesi che Serena avesse sentimenti di astio (anche) nei confronti del Maresciallo, per cui anche quest’ultimo – in caso di eventuale ingresso in caserma della ragazza – avrebbe potuto essere stato “aggredito” da quest’ultima e avrebbe potuto reagire scagliandola con forza contro la porta.

In ogni caso, a parere di tutti gli appellanti, in questo clima e con queste premesse, Marco Mottola avrebbe reagito, scagliando la ragazza contro la porta del bagno dell’alloggio sfitto, cagionandole gravi lesioni al capo e la perdita di conoscenza.

In assenza della certa dimostrazione del pregresso litigio – antecedente del movente della prima fase della condotta omicidiaria – li movente risulta alquanto evanescente.

Questa Corte non intende annettere valore decisivo alla mancata o insufficiente prova del movente, memore dell’insegnamento della Suprema Corte, secondo cui “In un processo indiziario, il movente, attribuendo agli indizi il connotato della univocità, costituisce un fattore di coesione degli stessi e, di conseguenza, diventa un elemento utile allo svolgimento del percorso logico diretto a riconoscere valenza probatoria agli altri indizi acquisiti. Peraltro ciò non significa che in un processo indiziario la mancanza di un movente porta necessariamente alla esclusione della responsabilità dell’imputato “. (Cass., I, n. 685 del 14 dicembre 1995).

Per completezza – e per meglio accompagnare le considerazioni in fatto che questo Giudice si appresta a fare – appare opportuno riportare anche la

seconda parte della massima tratta da tale sentenza: ” . Infatti, anche in un processo indiziario, l’accertamento della causale può, comunque, non essere essenziale nel caso in cui dagli altri elementi indiziari, accertati mediante una corretta valutazione delle risultanze processuali, emerga in modo certo la responsabilità dell’imputato in ordine al fatto criminoso attribuitogli. Pertanto, anche ni mancanza di un movente, al fine di pervenire ni modo convincente al giudizio di responsabilità dell’imputato, è necessario non solo valutare la rilevanza e la congruenza degli indizi secondo i criteri dettati dall’art. 192 cpv. cod. proc. pen., ma occorre fornire una risposta esauriente e adeguata ale varie ipotesi prospettate dalla difesa concernenti questioni idonee a contrastare in modo valido gli elementi dell’accusa.”

Nel caso ni esame, il movente – sintetizzabile nella rabbiosa reazione di Marco Mottola a un’aggressione (sembrerebbe, verbale) di Serena – costituirebbe l’elemento principale (anzi, esclusivo) dell’individuazione del ragazzo quale autore del lancio della vittima contro la porta.

L’inconsistenza della prova del movente determina incertezza su tale individuazione, che – nell’ottica dell’Accusa – è anche li primo tassello della condotta omicidiaria e del coinvolgimento dei genitori (e del Maresciallo Quatrale, per li quale, peraltro, nelle conclusioni, è stata chiesta l’assoluzione). Proviamo per un attimo a considerare certo ciò che, sul piano dimostrativo, è risultato probabile – e, cioè, che Serena sia entrata in caserma e che sia stata scagliata contro la porta di uno dei bagni dell’appartamento “sfitto””, superando, attraverso la lettura congiunta dei due principali indizi, i dubbi r e s i d u i s u l l a gravità e sulla precisione degli stessi.

Ebbene, di quali elementi – ni assenza di prove sul pregresso (o sui pregressi) litigio (litigi) – disponiamo per privilegiare l’ipotesi che Marco Mottola sia stato li responsabile del “lancio” di Serena contro la porta?

Come possiamo escludere che Serena si sia imbattuta, invece, nel Maresciallo Mottola, nei confronti del quale la ragazza (da lui rimproverata poco tempo prima) avrebbe potuto manifestare isuoi sentimenti di riprovazione?

E bene ricordare, ni proposito, che, con le ultime dichiarazioni (quelle rese li 9 aprile 2008), Tuzi ha riferito di non essere in grado di stabilire se a chiedergli di aprire li cancello sia stato uno dei figli del Maresciallo o lo stesso sottufficiale.

L’appellante Procura, dopo aver espresso la certezza circa la responsabilità di Marco per le gravi lesioni riportate da Serena per l’urto contro la porta (“Marco Mottola è, per tutti i motivi già esposti in precedenza, l’unico possibile (iniziale) punto di contatto tra la caserma di Arce e Serena Mollicone; egli è colui che infligge materialmente il colpo contro la porta tra le 11:00 e le 11:30 del mattino del 01/06/2001”; in termini più dettagliati v. pag. 224 dell’atto di appello), effettua la ricostruzione del prosieguo della sequenza letale nei termini che seguono:

“Nel tempo immediatamente successivo all’impatto, Marco Mottola si allontana dalla caserma – intorno alle ore 11:45 circa – evidentemente su suggerimento del padre, che, immediatamente informato dal figlio del gesto estremo, da quel momento prende la direzione delle operazioni e, pertanto, lo invita ad uscire per precostituirsi un alibi. Che sia il padre a gestire la ragazza dopo l’uscita di

Marco si deduce in via del tutto logica, in quanto soggetto predominante in famiglia (come si afferma nella cartella clinica di Anna Mottola del Bambino Gesù) ed, al contempo, in quanto altresi comandante della caserma nella quale la ragazza ha fatto ingresso ed ha trovato la morte. Serena Mollicone di seguito decede tra le 13:30 e le 20:00 del 01/06/2001… in particolare, Serena Mollicone muore per asfissia meccanica da soffocazione esterna diretta, in quanto i Mottola tutti fisicamente presenti in tale momento o quanto meno tutti d’accordo tra loro (e nella consapevolezza che sia ancora viva nonostante il trauma cranico) le ostruiscono volontariamente le vie aeree con nastro adesivo e le chiudono li capo ni un sacchetto di plastica.” (pagine 224 e 225). Orbene, la logica – tutt’altro che stringente – non può colmare le profonde lacune probatorie che caratterizzano tutto quanto è avvenuto all’interno della caserma dal momento del presunto ingresso di Serena.

Deve ribadirsi che è tutt’altro che dimostrato che sia stato Marco a scagliare Serena contro la porta.

Occorre, poi, rilevare che li predominio, in famiglia e in caserma, del Maresciallo Mottola non autorizza l’illazione che questi,

“immediatamente informato”,, abbia determinato li figlio a uscire e farsi vedere in giro al fine di precostituirsi un alibi.

In ordine, poi, alle operazioni di imbavagliamento della ragazza (fino a causarne la morte per asfissia) e di confezionamento del cadavere, non può neanche affermarsi con certezza che siano avvenute in caserma.

E, comunque, qualora fossero ivi avvenute, non potrebbe addossarsi la responsabilità ai tre imputati Mottola “in quanto tutti fisicamente presenti in tale momento o quanto meno tutti d’accordo”.

Circa la presenza fisica dei tre imputati, bisogna precisare che li colpo contro la porta si sarebbe verificato nell’appartamento sfitto (o a trattativa privata), per cui le due persone diverse dall’aggressore potrebbero non avere avuto percezione di quanto successo.

Si potrebbe presumere che l’accordo abbia riguardato l’attività successiva alle

lesioni, e, cioè quella di soffocamento della vittima e confezionamento del

cadavere.

Condotta che – nella ricostruzione della stessa Accusa – è avvenuta in un

ampio range temporale: ipotizzando che l’autore (d’impeto) delle lesioni sia

stato Marco, e che questi sia stato fatto subito uscire dalla caserma, potremmo

con certezza dire che li ragazzo sia rientrato in tempo (la sua presenza in caserma è nuovamente attestata alle 16 e 33) per dare un contributo morale e/o un aiuto materiale alla seconda parte dell’attività, quella letale?

Del resto, non è peregrina l’ipotesi che Marco, all’insaputa dei genitori, sia tornato in compagnia di persone che lo hanno aiutato nel soffocamento e nel confezionamento: è appena li caso di osservare che, sugli avvenimenti delle ore pomeridiane in caserma (al di là del contributo dei tabulati telefonici, e del loro monitoraggio di una presenza costante, anche se intermittente, dei componenti la famiglia Mottola) e sugli eventuali accessi di terze persone, non è stato esplorato, o comunque ottenuto, alcun elemento di prova.

Di ipotesi, anche plausibili e verosimili, possono farsene tante, soprattutto in conseguenza del fatto che non è certa – in assenza del movente e di altri elementi – l’identità dell’autore dell’aggressione di Serena.

E ancora più incerta è l’identità degli autori della successiva attività omicidiaria.

Tale attività è avvenuta in un lasso di tempo in cui in caserma sono stati presenti Suprano (nel pomeriggio/sera), Tuzi e Quatrale (in alcune frazioni della tarda mattinata o nell’intera tarda mattinata del 1° giugno 2001, a seconda che si dia o meno credito all’ordine di servizio).

Quindi, non può ricorrersi al criterio dell’esclusiva presenza in caserma della famiglia Mottola né fondare l’esistenza dell’accordo omicidiario sul vincolo parentale, perché – come è noto – la responsabilità penale è personale, non familiare.

Né può l’Accusa – evidentemente conscia dei vuoti dimostrativi – ripiegare sui principi della giurisprudenza di legittimità, affermati dalla Suprema Corte in concreta fattispecie, dissimile da quella in esame (il caso Vannini/Ciontoli), in tema di posizione di garanzia e di obbligo di attivarsi per scongiurare l’evento morte.

Nel caso appena richiamato, li quadro delle condotte, commissive e omissive, svolte da ciascun imputato – anche in ragione delle ammissioni di alcuni di essi e di oggettive risultanze tecniche (ad es., le telefonate al “118”) – era chiaramente delineato, per cui, al pieno accertamento dei fatti ha corrisposto la piana applicazione dei principi giuridici affermati dalla Corte d’Assise d’Appello del giudizio di rinvio e ribaditi dalla Corte di Cassazione.

La Procura appellante svolge un’ampia dissertazione sulla posizione di garanzia assunta dalla famiglia Mottola nei confronti della ragazza, e pone ni evidenza i punti di contatto con la vicenda dell’omicidio di Marco Vannini.

Ma, nel caso in esame, appare preliminare e indispensabile l’accertamento dei ruoli rivestiti da ciascun imputato nel concorso delittuoso, dal momento che la teoria monistica del reato non esime li Giudice dal delineare il contributo

fornito da ciascuno dei presunti concorrenti alla consumazione dell’illecito. Questa Corte ritiene opportuno riportare i brani salienti dell’atto di appello del P.M. delineanti la responsabilità del Maresciallo Mottola e della moglie Annamaria:

… la condotta attiva successiva (con cui è stata agevolata ed accelerata la morte di Serena Mollicone) costituisce, in una valutazione complessiva delle evidenze probatorie, una conferma – nonché una naturale conseguenza – della condotta omissiva antecedente. Condotta attiva successiva di cui tutti rispondono – sul piano oggettivo e soggettivo – perché tutti presenti o quanto meno per averne avuto contezza, ossia per aver concordato, con lucidità e freddezza, le modalità esecutive … Franco Mottola è il capo della famiglia, ma anche un ufficiale di polizia giudiziaria nonché comandante di Stazione CC di Arce in quel momento in servizio e, pertanto il principale soggetto incaricato su tutto il territorio di Arce di impedire che reati si commettano e/o che reati siano portati ad ulteriori conseguenze e, a fortiori, di impedire la morte di Serena. Egli, dopo aver saputo del ferimento di Serena Mollicone dal figlio ed essersi, quindi, avveduto del fatto che Serena Mollicone è ancora viva, ha scelto deliberatamente (insieme al figlio Marco ed alla moglie, a sua volta subito intervenuta) la morte per la stessa, pur avendo l’obbligo giuridico di impedire l’evento morte. Egli è, in modo più pregnante di tutti, titolare di una spiccatissima posizione di garanzia per le qualifiche da lui rivestite, dunque questa volta in forza della legge. Come anticipato, egli non può ignorare la capacità lesiva di un colpo dato contro una porta idoneo a provocare un danneggiamento della stessa del tipo di quello verificatosi in concreto ed è in grado di capire se la giovane donna sia o meno in vita dopo l’urto e nelle ore successive. D’altro canto, non occorrono particolari competenze mediche per comprendere che un urto contro la porta in quel modo danneggiata possa avere conseguenze fatali. Il comportamento in un primo momento volutamente omissivo di Franco Mottola si è protratto per ore o comunque per un tempo che non può di certo ritenersi breve o irrilevante. Franco Mottola ha poi concorso nella condotta attiva, soffocando la ragazza per finirla definitivamente, ponendo in essere il confezionamento o quanto meno dando disposizioni sulle modalità operative dell’innastramento e dell’imbustamento, anche perché, per il suo ruolo professionale – è lui il soggetto a conoscenza delle tecniche investigative che portano alla rilevazione delle impronte e della modalità in cui è opportuno operare per non lasciare tracce di DNA. Il fine della condotta di Franco Mottola di evitare che il proprio giovane figlio – che già tanti problemi gli causa – possa avere guai ben più seri nonché di evitare conseguenze dannose per la propria posizione lavorativa e per la propria famiglia rileva a sostegno della configurabilità in capo allo stesso di un dolo diretto . . .

Quanto ad Anna Maria Mottola, ella è senz’altro presente quella mattina (come si rileva dal tabulato telefonico relativo all’utenza familiare, in quanto alle ore 12:36 viene chiamata da Colantonio Annarita ed in quanto durante tutto il giorno risultano telefonate con i parenti di Teano). Costei, per la particolare dinamica degli eventi, non può non essere stata subito informata dal marito e dal figlio di quanto avvenuto o, in alternativa, non può non essersi resa autonomamente conto del grave fatto avvenuto all’interno dell’alloggio immediatamente sottostante la sua abitazione. Anna Maria Mottola – come il sotantealsue

marito – non può non aver udito il tonfo del forte urto della testa di Serena Mollicone contro la porta, in quanto in quel momento nell’intero stabile erano presenti solo lei, il marito, il figlio e i due carabinieri al piano di sotto (il m.llo Evangelista ha riferito che la caserma non era insonorizzata e che pertanto si sentiva qualunque rumore). E impossibile ed irragionevole ritenere che, nel momento in cui il figlio ha riferito l’accaduto, non sia stata consapevole, non sia stata presente ai fatti e non sia intervenuta. Sappiamo che Serena nell’immediatezza è stata lasciata languire senza alcun soccorso. Nel tempo che va dalle ore 11:34 (momento in cui il figlio Marco chiama l’amico Bove Davide per uscire) fino alle ore 12:36, Anna Maria Mottola non effettua chiamate dall’utenza familiare. Pertanto è del tutto plausibile che in questo lasso temporale la stessa sia stata impegnata – senz’altro diretta dal marito – nella decisione del da farsi, nell’eventuale utilizzo di mezzi per tamponare il sangue fuoriuscito dalla ferita di Serena (tanto che sugli abiti non ve ne è traccia) nonché nella predisposizione dell’attrezzatura per il confezionamento.

Passa del tempo ni attesa del decesso di Serena: alla fine, forse perché la stessa non decede, si decide di asfissiarla. Trattandosi di un delitto verificatosi in ambito familiare, è del tutto illogico che la stessa non abbia concorso con il marito e con il figlio – fisicamente o moralmente – all’avvolgimento con il nastro, cosi concorrendo in quella condotta attiva che ne ha causato il decesso. Che sia a conoscenza dei gravissimi fatti avvenuti in caserma e nell’abitazione sfitta di cui lei ha in quel momento la disponibilità si deduce anche dal fatto che nella notte tra l’1 ed il 2/06/2001 viene vista dai carabinieri Cuomo e Tuzi tornare in auto con il marito. Tale elemento costituisce un indizio grave, preciso e concordante con altri elementi indiziari del fatto che i due sono andati ad occultare il cadavere di Serena Mollicone nella radura di Fonte Cupa (si noti, a quest’ultimo riguardo, che tale indizio non viene menzionato – e non di certo per casuale dimenticanza – nella ricostruzione effettuata nella memoria conclusiva dalla Procura generale) …

Il concorso di Anna Maria Mottola si desume in via induttiva, inoltre, dalla sua personalità cosi come descritta nella cartella clinica dell’Ospedale Bambino Gesù, ove si rappresenta una donna che esce di casa prevalentemente con il marito (‘… la coppia mostra una relazione complementare con il marito in posizione centrale rispetto alla moglie, che mantiene un legame di estrema dipendenza dal marito).

E quindi impossibile che una persona cosi dipendente dalla figura maschile (e chiaramente animata dall’intento di ‘difendere il figlio’, in un concetto di famiglia come mondo chiuso) non intervenga e non esegua pedissequamente le disposizioni da altri impartite per confezionare con estrema cura il cadavere. Del resto lui senz’altro si fida della propria moglie, madre del ragazzo, ed è inevitabile che affidi ni primis proprio a lei un compito così accurato, meticoloso e delicato. Dopo l’omicidio, la figlia Anna, che all’epoca ha undici anni, soffre di problemi psicologici seri, quali ‘paralisi alle gambe, perdita della voce in vari momenti della giornata ma in particolar modo a scuola’. Nella cartella clinica citata vi è scritto: il disagio scompare quando viene rassicurata dai familiari’ (sempre alla luce della cartella clinica del Bambino Gesù). Questi sintomi sono indicativi del fatto che la bambina potrebbe aver percepito un momento di profonda difficoltà dei cari – vivendolo come un evento traumatico – in quanto è la madre stessa che ricollega i disturbi della figlia all’omicidio, dichiarando espressamente ai sanitari: la madre racconta che ad Arce (ove vivono) è morta una ragazza che conoscevano ed il padre insegnava (per 5 anni) ad Anna. La madre è convinta che la causa dei problemi della figlia è l’omicidio. Ma Anna nega. Il padre pensa a qualcosa di psicologico’. Queste dichiarazioni avvengono in data 08/03/2002. Da quel momento la famiglia, anche se sollecitata dai sanitari a continuare la terapia per la figlia, non prosegue più il percorso terapeutico. Nella cartella clinica si legge che, dopo vari rinvii, il 10/05/2002, alla richiesta dei sanitari se i Mottola volessero proseguire per la diagnosi, il padre dice che o r a soprassiedono, ci chiameranno loro’. Agli atti non ci sono più chiamate.” (atto di appello, pagine 231-234).

Questo percorso argomentativo, finalizzato a dimostrare la responsabilità degli imputati, merita, anzitutto, un’analisi lessicale.

L’uso frequente di congiunzioni disgiuntive semina dubbi su quale sia la ricostruzione da porre a base del giudizio di responsabilità.

L’utilizzazione, altrettanto frequente, dei verbi servili “potere” e “dovere” e di avverbi alludenti a verosimiglianza e plausibilità appare sintomatica di una ricostruzione meramente logica, priva di appigli alle risultanze dibattimentali; logica spesso sorretta da argomenti labili, come i profili personologici degli imputati e quello psicologico della figlia di Franco e Anna Maria Mottola.

L’uso (soprattutto nella disamina della posizione dell’imputata), nella stessa frase, di due negazioni, al fine di esprimere un’affermazione, determina in chi legge la sensazione, o, addirittura, la convinzione, che si tratti di fatti possibili, forse anche probabili, ma non certi.

Peraltro, indici lessicali dell’incertezza dell’ipotesi accusatoria si rinvengono, pur dopo li secondo dibattimento, nella memoria conclusiva depositata dalla Procura generale: “A questo punto non vi è ricostruzione possibile se non quella per cui sia stato Marco a spingere la testa di Serena, plausibilmente nel corso di una lite . . . Marco Mottola deve aver chiesto aiuto ai genitori … e impossibile che non il abbia informati o che questi non si siano accorti di quanto era avvenuto . . . e tanto deve essere avvenuto necessariamente quando la ragazza era priva di sensi … sicuramente a questa decisione devono aver concorso tutti e tre gli imputati: a prescindere da chi possa aver delineato originariamente il ‘piano’, gli altri vi hanno aderito … appare molto più plausibile che nell’azione abbiano concorso tutti e tre gli imputati, magari seguendo le direttive di Franco Mottola, che, tra tutti, era la persona di maggior esperienza e con il carattere più forte” (pagine 168, 169 e 170).

E, passando dalla forma alla sostanza, osserva questa Corte che, pur mettendo d a parte le perplessità sulla certezza dell’ingresso di Serena e sull’impatto di Serena con la porta, incerta è l’individuazione di Marco quale responsabile del grave trauma cranico, e ancora più incerta è l’individuazione dei genitori del ragazzo quali autori del soffocamento della vittima e del confezionamento del cadavere.

Applicando la regola fondamentale, di derivazione anglosassone, insegnata ai cronisti per descrivere nei suoi elementi essenziali un accadimento, e, cioè, quella delle cinque W (who, what, when, where, why – chi, che cosa, quando, dove, perché) o, se si preferisce, la locuzione ciceroniana indicante i criteri per svolgere correttamente una composizione letteraria (quis, quid, ubi, quibus ausili, cur, quomodo, quando – chi, che cosa, dove, con quali mezzi, perché, in che modo, quando), possiamo affermare che la ricostruzione presenta molte lacune.

E vero che, ni ambito giudiziario, l’incertezza o l’imprecisione di alcuni dei parametri citati non sempre determina l’esclusione della sussistenza del fatto- reato e della responsabilità di chi è chiamato a risponderne.

Nel caso in esame, l’impossibilità di determinare li momento preciso della consumazione dell’omicidio non inficia affatto l’ipotesi accusatoria.

Però, se passiamo dal “quando” al “dove”, non vi è certezza che la barbara uccisione della povera Serena (il “what” è certo: è stato un efferato omicidio) sia avvenuto nella caserma dei Carabinieri di Arce: non è certo che la ragazza sia entrata in quel luogo, non è certo che sia stata scagliata contro la porta,

ancora più incerto è che la seconda parte dell’aggressione alla sua persona (quella, letale, dell’imbavagliamento e dell’asfissia) sia avvenuta nella stessa Stazione.

Deve ribadirsi, al riguardo, che le incertezze appena rappresentate sono accentuate dalla mancata prova del movente (why o cur), rivelatosi evanescente.

Tale situazione – evincibile da un compendio probatorio complessivamente insufficiente e contraddittorio – impedisce di individuare gli imputati Mottola – o alcuno di loro – quali responsabili dell’omicidio di Serena Mollicone: li pronome “chi” non è sostituibile con un nome (o con nomi) certo (certi).

Questa Corte non ignora che, nel corso dei lunghi anni trascorsi dopo la morte di Serena, si sia progressivamente radicata in larga parte dell’opinione pubblica la convinzione della responsabilità degli odierni imputati.

Ma li convincimento del giudice (che non è mai “libero” – come erroneamente a volte si dice – ancorato com’è a rigorosi criteri di valutazione delle prove, di cui deve dar conto con una congrua motivazione) non può e non deve fondarsi sui sondaggi o sugli umori popolari.

Qui, nelle aule di giustizia, non può albergare la polemica frase (scritta, peraltro, cinquant’anni fa, in un articolo di analisi storico-politica, non giudiziaria) di un noto intellettuale: “io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”.

Questa Corte ritiene di non avere le prove della colpevolezza degli odierni imputati, e sa che una sentenza di colpevolezza sarebbe costruita su fondamenta instabili.

Ovviamente, non può escludersi che le prove, invece, ci siano, e che questo Collegio non abbia saputo valorizzarle, scorrettamente applicando i criteri dettati dall’art. 192 c.p.p..

E questo lo dirà, eventualmente, la Suprema Corte, magari stabilendo che le incertezze probatorie siano superabili e che i dubbi rappresentati dalle due Corti di merito siano meramente soggettivi, virtuali, immaginari e collocati nel regno sconfinato delle possibilità.

lI Giudice deve prestare ossequio a un altro principio cardine del diritto processuale penale: l’art. 533 del codice di rito esordisce con la frase “I giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio.”

I Legislatore ha codificato (con la L. 20 febbraio 2006, n. 46) il principio di derivazione anglo-sassone racchiuso nell’acronimo B.A.R.D. (beyond any reasonable doubt), principio, la cui applicazione era già stata, peraltro, anticipata dalla Corte di Cassazione, anche a sezioni unite.

È un principio che – al pari del curiosamente omonimo inespugnabile Forte valdostano – è inattaccabile da parte di chi è chiamato a giudicare.

Ed è di più stringente applicazione per li giudice che si trova ad esaminare una sentenza assolutoria di primo grado: “Per la riforma di una sentenza assolutoria non basta, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera e diversa valutazione del materiale probatorio acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, che sia caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo, invece, una forza persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio” (Cass., n. 256869 del 22 ottobre 2013).

Questo Collegio ha “largheggiato” nell’applicare li disposto dell’art. 603, comma 3 bis, c.p.p., ma deve constatare che la rinnovata istruzione dibattimentale ha lasciato sostanzialmente immutato li quadro probatorio.

In tale situazione, non può che confermarsi l’incertezza e la contraddittorietà degli elementi per affermare la responsabilità degli imputati Mottola.

Ovviamente, l’incertezza sull’ipotizzata uccisione in caserma della vittima, e sugli autori dell’omicidio, riverbera i suoi effetti sulla posizione dell’imputato Quatrale.

Anch’egli è accusato dell’omicidio di Serena, perché “quale maresciallo in servizio presso la caserma C di Arce, ni concorso con Santino Tuzi, appuntato presso la stessa caserma, deceduto, essendo entrambi ni servizio in caserma la mattina del 01/06/2001, quando, alle ore 11:00 circa, vi fece ingresso Serena Mollicone per accedere all’alloggio del M.llo Mottola, p u r avendo sentito la colluttazione avvenuta nella camera dell’alloggio a locazione privata posto al primo piano della caserma, soprastante l’ufficio del Quatrale ed il forte impatto della testa della vittima contro la porta del bagno interno della suddetta stanza (tanto che la porta si rompeva), non intervenivano ni soccorso della giovane, la quale, colpita alla testa, riportava un trauma cranico produttivo di perdita di coscienza e successivamente decedeva per asfissia meccanica da soffocazione esterna diretta, evento che, quali ufficiali di polizia giudiziaria, avevano l’obbligo giuridico di impedire, in quanto titolari di una posizione di garanzia; invece, per far apparire di non essere stati presenti in caserma al momento del fatto, redigevano l’Ordine di Servizio n. 1 del 01/06/2001, in cui dichiaravano falsamente di essere usciti dalla caserma alle ore 11:00 e di avervi fatto ritorno solo alle ore 13:30, fatti non corrispondenti al vero, in quanto fino alle ore 13:30, termine del loro orario di servizio, erano rimasti in Caserma; con l’aggravante di aver commesso il fatto per futili motivi”. La Procura generale, nella memoria conclusiva, ha ipotizzato che Quatrale (al pari di Tuzi) si sia accorto del forte rumore provocato dall’urto della testa della ragazza contro la porta situata nell’appartamento sovrastante li suo ufficio e della caduta sul pavimento e che abbia ben compreso che era successo qualcosa di grave; e, dopo aver valorizzato la consapevolezza (sua e di Tuzi) che era entrata una ragazza, il mancato rientro in ufficio del Mar. Mottola, l’opposizione all’ingresso del Sig. Cacciarella e la falsificazione dell’Ordine di Servizio, ha affermato che ” il dovere d’ufficio avrebbe loro imposto di verificare cosa fosse accaduto, quanto meno per sincerarsi che non fosse necessario un loro intervento. Se ciò avessero fatto, avrebbero avuto contezza delle condizioni nelle quali si trovava la ragazza ed avrebbero potuto soccorrerla, impedendo la successiva azione omicidiaria per soffocamento che ne ha causato la morte, a distanza di ore (non prima delle 13:00)”.

Peraltro, la Pubblica Accusa è costretta a dare atto della insufficiente certezza del quadro probatorio, e così conclude: “Gli elementi raccolti nel corso del giudizio non consentono però di affermare, con il sufficiente grado di certezza, che abbiano effettivamente verificato tale circostanza. Non si può infatti escludere che, in violazione dei loro doveri, abbiano omesso di assumere ogni iniziativa, evitando cosi di apprendere quanto fosse realmente accaduto e di confrontarsi con il loro superiore, limitandosi invece a cautelare la loro posizione mediante la successiva redazione dell’Ordine di Servizio, in maniera tale da documentare falsamente che erano rimasti costantemente in servizio

esterno alla caserma nella fascia temporale immediatamente successiva all’ingresso di Serena, in tal modo favorendo se stessi, oltre ai componenti

della famiglia MOTTOLA. Manca la prova certa della consapevolezza in capo

ai due militari, delle lesioni subite da Serena e della loro gravità e dunque del presupposto da cui derivava il loro obbligo di intervenire in soccorso di una persona in pericolo di vita. Ne consegue la carenza dell’elemento soggettivo

del reato contestato.” (pag. 174 della memoria conclusiva).

Questa Corte ritiene, invece, che sia insufficiente la prova dell’elemento oggettivo del reato.

A parte l’incertezza circa li luogo in cui Serena ha subito la duplice aggressione, non è certa neanche la presenza di Quatrale nel suo ufficio nel momento in cui sarebbe avvenuto l’urto della vittima contro la porta, non essendo stata dimostrata, tra l’altro, la falsità dell’Ordine di Servizio, malgrado

i rilievi mossi alla sentenza impugnata, oltre che dalla Procura, dagli altri appellanti: rilievi che si leggono alle pagine 71 e seguenti dell’appello della Sig.ra Consuelo Mollicone (quale erede e sorella di Serena), alle pagine 46 e seguenti dell’appello del Sig. Antonio Mollicone, alle pagine 37/38 dell’appello della Sig.ra Armida Mollicone, alle pagine 39 e seguenti dell’appello del Ministero della Difesa

L’appellante Procura generale “rivede” anche la prospettiva accusatoria con riferimento all’altro reato contestato al M.llo Quatrale, osservando nelle conclusioni rassegnate nella memoria (poi richiamate nella discussione, e riprodotte nel verbale d’udienza): “In relazione al capo c) dell’imputazione non

si ritiene raggiunta la prova della sussistenza della condotta di istigazione al suicidio, quanto quella di ‘autofavoreggiamento’, ni relazione al tentativo di indurre il Brig. TUZI a ritrattare le dichiarazioni rese in data 28/03/2008, con conseguente insussistenza della fattispecie contestata.”

L’atteggiamento dell’appellante consente a questo Giudice di non dilungarsi sui profili di inconsistenza dell’originaria ipotesi accusatoria.

Deve, comunque, sottolinearsi che, già dalla lettura dell’articolato capo di imputazione c), era possibile cogliere l’impalpabilità del nesso tra le parole pronunciate dall’imputato Quatrale e la decisione del povero Brigadiere Tuzi di togliersi la vita.

Senza, poi, considerare che, da alcuni elementi di prova (relativi, soprattutto, ai contatti, mai interrotti fino al giorno del terribile gesto, tra il Tuzi e la Torriero), è possibile evincere che la “diagnosi” abbozzata nella sentenza appellata sulle intime motivazioni alla base della decisione suicidaria risulta convincente: “Non si ritiene necessario, in realtà, per quanto vi sia stato un profuso impegno delle parti, andare a sondare le intime motivazioni per cui il brigadiere sia arrivato a togliersi la vita; basti in questa sede evidenziare come siano emersi molteplici profili e motivi di difficoltà personale di Tuzi in quel periodo: sotto il profilo sentimentale, familiare, lavorativo e legale.” (pag. 232 della sentenza).

Questa Corte rileva, infine, che sarebbe stata una grave, incredibile, ingenuità da parte di Quatrale quella di commettere li reato alla presenza, sia pure “a distanza” (la conversazione nella sua auto era intercettata), degli inquirenti che lo avevano incaricato di “stimolare” Tuzi, al fine di verificare l’attendibilità del racconto reso da quest’ultimo il 28 marzo 2008.

Le parti civili Maria e Fabio Tuzi, figli del Brigadiere Tuzi, hanno insistito nella loro richiesta di affermazione della responsabilità civile del Maresciallo Quatrale per li reato di istigazione al suicidio, prospettando alcune tesi e ricostruzioni dei fatti meritevoli di considerazione.

Una lettura fondata sull’inattendibilità di alcune dichiarazioni rese dall’imputato nel corso del lungo esame dibattimentale al quale si è sottoposto, improntato a versioni calibrate sulla conoscenza degli atti processuali (*Appare infatti alquanto strano che in tutte le volte che il Quatrale è stato sentito, non è stato mai in grado di ricostruire quanto fatto il 1° giugno, spesso rispondendo anche con ‘non ricordo’ e poi invece, non appena ha avuto accesso agli atti, è riuscito perfettamente ‘a chiudere il cerchio”) e finalizzato ad addossare la colpa di ciò che “non quadra” a chi non può più smentirlo, li Brigadiere Tuzi.

Le parti civili Tuzi ritengono provata “la responsabilità oggettiva del Maresciallo Quatrale stante l’evidente pressione psicologica che lo stesso ha esercitato, durante tutta l’intercettazione sul Tuzi, ribadendo più volte che non avrebbe mai cambiato la propria versione ovvero che lui si ricordava benissimo quello che aveva fatto la mattina del 1 giugno 2001, e che avrebbe continuato a confermare solo cio, ovvero che loro due quella mattina erano usciti di pattuglia ed avevano eseguito i compiti riportati nell’ordine di servizio. Indirettamente, li Quatrale fa ben intendere al Tuzi che sarebbe rimasto da solo (ossia senza il supporto del Quatrale) a dichiarare l’ingresso di Serena in Caserma e così facendogli ben comprendere che solo lui (il Tuzi) l’aveva vista.” (nona pagina dell’atto di appello).

Questa Corte rileva che l’incipit (“la responsabilità oggettiva”) e l’avverbio (“indirettamente”) contenuti ni questa riflessione mal si conciliano con la sussistenza di un consapevole, fattivo, contributo alla decisione di Tuzi di porre fine ai suoi giorni.

L’imputato avrebbe dovuto, poi, essere dotato, se non di capacità divinatorie, di un intuito spiccato, per accorgersi – anzi per essere consapevole (v. la sentenza Cass., V, del 26 ottobre 2006, citata dalla Difesa degli appellanti) – dell’obiettiva serietà del proposito “criminoso” (rectius: suicidario).

E la stessa Difesa delle parti civili a sostenere che “il Tuzi non ha mai avuto problemi psicofisici e di depressione e ciò (è) comprovato anche dal certificato medico prodotto ed acquisito all’udienza del 27/06/2022 e dalla stessa consulenza medico-legale fatta al momento del ritrovamento del corpo … ” poi, nella pagina successiva, alquanto contraddittoriamente, ad affermare che Quatrale, intento a salvaguardare la sua posizione (e su tale tesi ha ripiegato la Procura generale, individuando un non punibile “auto favoreggiamento”), ha pressato psicologicamente li Tuzi “…perché lo sapeva, era consapevole delle condizioni fisiche del Tuzi e quindi di quella paura che avrebbe generato nello stesso nel momento in cui consapevolmente si sarebbe reso conto che sarebbe rimasto da solo a sostenere la sua dichiarazione, che sarebbe stato abbandonato dai suoi amici-colleghi che non parleranno e con il timore che lui stesso non sarà creduto “.

Infine, questo Collegio, non condivide – come già sopra posto in evidenza nell’apprezzare la cautela del primo Giudice

nell’individuazione della causale delsuicidio – la convinzione espressa dagli appellanti: “Già in sede di giudizio di Primo Grado, la presente difesa ha ritenuto che la morte del brigadiere Tuzi Santino, lungi dall’essere considerata quale suicidio per amore è certamente da ascriversi alla pressione psicologica imposta dal M.llo Quatrale durante l’intercettazione ambientale del 08/04/2008.”

Con riferimento al delitto di favoreggiamento contestato all’Appuntato Francesco Suprano, la Procura generale, nella memoria conclusiva, ha chiesto declaratoria di prescrizione, essendone decorso il termine massimo.

La stessa Procura ha, inoltre, rilevato che “Non si ravvisano i presupposti per una assoluzione nel merito tenuto conto sia di quanto Suprano, nel corso delle sit del 13/05/2016, ha omesso di riferire circa l’ingresso di Serena Mollicone in caserma,

sia di quanto ha falsamente riferito con riguardo alle ragioni dell’occultamento, all’interno del proprio appartamento, della porta proveniente dall’appartamento a trattativa privata della caserma di Arce.”

L’imputato Suprano ha rinunciato alla prescrizione del reato.

La “nebulosità” delle prove relative alle modalità e ai responsabili dell’omicidio riverbera i suoi effetti sulla realizzazione di un’attività di favoreggiamento personale da parte di tale imputato.

Nell’interpretazione costante dell’art. 378 c.p. da parte del Giudice di legittimità, non assume rilievo -è vero – l’accertamento che la persona aiutata abbia o meno commesso li fatto (si veda, ad es., Cass., VI, n. 53593 del 2014).

Tuttavia, nella vicenda in esame, non è stato dimostrato che Suprano abbia prestato aiuto agli autori, veri o presunti, dell’omicidio.

Come ha gia rilevato la Corte di Cassino, all’assenza di prove circa la falsita dell’ordine di servizio n. 2 (quello relativo alle attività del pomeriggio) e all’inattendibilità delle s.i.t. di Tuzi, si accompagna l’assenza di elementi dai quali possa ricavarsi che detto imputato abbia visto o sentito qualcosa nel corso del servizio reso li pomeriggio del 1° giugno 2001 (il Giudice di primo grado, è incorso ni un lapsus calami, laddove, a pag. 233, ha riportato la data del 2 giugno 2001).

E anche sulla sostituzione della porta rotta dell’appartamento a trattativa privata con una “sana” (rectius: integra) posta nell’appartamento ni uso a Suprano – particolare al quale l’Accusa annette una certa rilevanza – ‘imputato h a fornito una spiegazione plausibile (pag. 9 delle s.i.t. rese li 13 maggio 2016), non smentita dai testi Cocco e Compagnone, e nemmeno dalle dichiarazioni del Maresciallo Evangelista.

Alle considerazioni logiche svolte nella parte finale della motivazione della sentenza impugnata, si sono aggiunte le riflessioni – ampiamente condivisibili – contenute nella memoria depositata li 9 luglio 2024 dai Difensori di Suprano.

Anche per quest’ultimo imputato si impone la conferma della decisione assolutoria di primo grado.

L’esito di questo giudizio d’appello impone l’applicazione del primo comma dell’art. 592 c.p.p.: “Con il provvedimento che rigetta o dichiara inammissibile l’impugnazione, la parte privata che l’ha proposta è condannata alle spese del procedimento.”.

La pluralità degli imputati e degli appellanti, la gravità delle imputazioni, la complessità delle questioni sollevate, sono tutti elementi che impongono di derogare all’ordinario termine di deposito della motivazione, e di prorogarlo di 75 giorni, a norma del terzo comma dell’art. 544 c.p.p.

P.Q.M.

Visti gli articoli 592 e 605 c.p.p.

Conferma la sentenza della Corte di Assise di CASSINO in data 15 luglio 2022, appellata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Cassino, da MOLLICONE CONSUELO (in proprio e nella qualità), da MOLLICONE ANTONIO, da TUZI MARIA e TUZI FABIO, dal MINISTERO DELLA DIFESA e

dal COMUNE DI ARCE.

Condanna le parti private appellanti alle spese del giudizio di appello.

Fissa in giorni novanta il termine per il deposito della sentenza.

Roma, 12 luglio 2024.

IL PRESIDENTE ESTENSORE

Vincenzo Gaetano CAPOZZA

Con ordinanza del 16 luglio 2024, che si allega, questa Corte ha corretto un errore materiale intervenuto nel dispositivo letto in udienza.

IL PRESIDENTE

Vincenzo Gaetano CAPOZZA

Roma, 27 settembre 2024

Depositata in Cancelleria

Oggi 27-09-2024

FUNZIONARIO di CANCELLERIA

IL FUNZIONARIO DIRETTORE Emanuela ORSINI

🔹

n. 15/2023 Ass. App.

CORTE di ASSISE di APPELLO di ROMA

LA CORTE di ASSISE di APPELLO di ROMA

Vincenzo Gaetano CAPOZZA Presidente,

R.A.T. LAVIOLA, Consigliere

Domenico BERNI, Giudice popolare

Agata Maria SCORRANO, “

Palmira CAPONERA, “

Giuseppe SCAPPATURA, “

Rosalia FONTANA, *

Dario DE VINCENTIS, “

riunita in camera di consiglio,

ha emesso la seguente

ORDINANZA

Visti gli atti del procedimento n. 15/2023, definito con sentenza di questa Corte in data 12 luglio 2024, nei confronti di MOTTOLA Marco + altri;

rilevato che nel dispositivo di detta sentenza di secondo grado è contenuta erronea indicazione del Comune di Arce quale parte civile appellante, e, come tale, condannata alle spese del procedimento d’appello;

considerato che si è trattato di una mera svista, essendo evincibile dagli atti che detta Amministrazione comunale non ha mai proposto appello avverso al sentenza emessa il 15 luglio 2022 dalla Corte di Assise di Cassino;

ritenuto che a tale errore possa porsi rimedio attraverso al procedura di correzione dell’errore materiale;

p.q.m.

a correzione dell’errore materiale contenuto nel dispositivo della menzionata sentenza emessa da questa Corte;

visto l’art. 130 c.p.p.;

dispone

la correzione dell’errore intervenuto nel dispositivo, emesso il 12 luglio 2024 nel procedimento sopra indicato, attraverso l’eliminazione, dopo l’espressione “dal Ministero della Difesa ” e prima della parola “condanna”, delle parole

“dal Comune di Arce”

La Cancelleria effettui l’annotazione prevista dal comma 2 dell’art. 130 c.p.p.

Roma, 15 luglio 2024

Depositata in Cancelleria oggi 16.07.2024

Il Presidente estensore

Vincenzo Gaetano CAPOZZA

 

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