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D’AMATO E LA BRILLANTE LAUREA IN GIURISPRUDENZA

I complimenti della Commissione per il collaboratore del nostro giornale. Tesi sul divieto ai magistrati dell’iscrizione ai partiti

In un momento di crescente attenzione sulla relazione tra magistratura e politica, Francesco D’Amato, già collaboratore del nostro quotidiano e oggi giovane giurista, ha conseguito la laurea in giurisprudenza presso la Pontificia Università Lateranense presentando una proposta di riforma innovativa che merita di essere al centro del dibattito pubblico. La sua tesi ha ricevuto complimenti dalla commissione per l’originalità e la rilevanza del contenuto, proponendo una riforma normativa destinata a far discutere. Con i complimenti ricevuti dalla commissione per l’originalità e la rilevanza del contenuto, Francesco D’Amato ha incentrato il suo lavoro su una proposta di riforma normativa proponendo una riforma normativa destinata a far discutere. L’elaborato scientifico è concentrato su una questione cruciale: il divieto di iscrizione ai partiti per i magistrati, che contrasta con il loro diritto all’elettorato passivo, garantito dalla Costituzione. Questo diritto, che consente di competere per cariche elettive, è un aspetto fondamentale della democrazia, e l’esclusione dei magistrati da tale opportunità rappresenta un nodo irrisolto del nostro ordinamento giuridico. Negli ultimi anni, si sono moltiplicati i casi di giudici che hanno transitato dalla giustizia alla politica, giudici che sono passati dal “Bench” alla politica, rendendo urgente una riflessione su questo tema. Per risolvere tale antinomia sarebbe auspicabile un intervento normativo che elimini appunto tale aporia logica. Nella sua tesi, D’Amato propone un intervento legislativo per regolare la disciplina interna dei partiti, distinguendo tra la semplice iscrizione a un partito e la partecipazione attiva alla vita politica. «Con tale distinzione – scrive D’Amato – si potrebbe consentire al magistrato di iscriversi senza vincoli gerarchici, ampliando così il diritto di manifestazione del pensiero e permettendo di candidarsi secondo le norme interne dei partiti». «Sul versante del diritto di elettorato passivo, invece – prosegue sempre D’Amato – sarebbe consentita la candidatura presso istituzioni elettive per i magistrati, posta l’aspettativa non retribuita già prevista nella legislazione italiana. La prospettiva che potrebbe trovare parziale soluzione al problema, evitando che l’influenza e i rapporti politici possano condizionare la funzione giudiziaria, è un periodo obbligatorio di ‘decantazione’ di cinque anni (per i magistrati candidati e non eletti e a seguito di cessazione della carica elettiva) nel quale, a norma dell’art. 51 della Costituzione, il magistrato avrebbe diritto alla conservazione del posto di lavoro ma verrebbe assegnato a funzioni prettamente amministrative presso altre pubbliche amministrazioni con funzioni dirigenziali». Il re-ingresso del magistrato nelle sue funzioni, ed è questa l’altra idea innovativa di D’Amato, sarebbe poi subordinato ad «un previo un esame valutativo del Consiglio Superiore della Magistratura” che tenga in considerazione “eventuali situazioni di conflitto di interesse, il grado di rilevanza della carica ricoperta, se questa possa influenzare l’opinione pubblica in merito alla sua indipendenza ed imparzialità, ed eventuali funzioni differenti in modo perpetuo così da evitare conflitti tra il ruolo svolto precedentemente e il re-esercizio della funzione giudiziaria». Concludendo, ci congratuliamo con Francesco D’Amato per il suo traguardo accademico e per il significativo contributo al dibattito giuridico italiano, certo che il suo lavoro avrà un impatto positivo sul futuro della giustizia nel nostro Paese.

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